"Raccontare poco non era giusto, raccontare il vero non si era creduti, allora ho evitato di raccontare. Sono stato prigioniero e bon, dicevo."
Dalle memorie di un internato
La storia della deportazione degli IMI da parte delle forze armate tedesche, la loro schedatura e internamento in "lager", il loro massiccio impiego nella produzione bellica, nell'industria, nell'agricoltura, nei servizi da parte della Germania di Hitler, appartiene pienamente alla storia d'Europa, è comune a quella delle vittime del nazismo. Ragioni di opportunità politica, colpevoli rimozioni, hanno fatto sì che per cinquant'anni quello della deportazione e internamento di oltre mezzo milione di italiani sia stato considerato un fenomeno scomodo, "minore" rispetto agli altri drammi della guerra, una storia su cui gettare, al più, un fugace sguardo "pietoso". L'isolamento dello storico in questo caso trova una rispondenza nell'isolamento della memoria dei protagonisti, abbandonata e chiusa nel silenzio individuale. Deportati per andare a occupare, alla catena di montaggio, il posto delle generazioni ariane mandate a massacrare/arsi sui vari fronti, vissero un vero e proprio inferno in terra, inghiottiti da una spirale in cui precipitarono la Germania nazista e i suoi milioni di schiavi, un inferno fatto di fame, distruzioni, desolazione, bombardamenti, disciplina, morte. Per questi militari si aprirono solo prospettive di sopravvivenza, di resistenza.
I ricordi degli internati militari italiani "traditi, disprezzati, dimenticati" come li definisce lo storico tedesco Gerhard Schreiber, ci restituiscono la visione corale del disorientamento in cui piombò l'esercito italiano dopo l'otto settembre, il sentimento quasi di vergogna, lo spaesamento, lo scoramento in cui caddero questi giovani nati con il fascismo, cresciuti nella sua scuola, mandati a combattere sui vari fronti e infine abbandonati a sé stessi. E' la memoria di una coralità che nei lager prende coscienza di sé e della sua condizione, che sceglie di farla finita con il ruolo che le si vuole assegnare, che rifiuta le lusinghe dei fascisti, malgrado ciò comporti una condizione di schiavitù e di violenze,che esprime da subito la sua resistenza alla guerra e al nazismo.
E' "l'altra Resistenza" . Una scelta di massa che è una sonora sconfitta per il fascismo; il loro numero spropositato diviene comunque una indispensabile risorsa per la Germania; saranno sempre ingombranti per Mussolini. Separati dal mondo, non assistiti dal diritto, né dalla Croce Rossa, svilupperanno una forte solidarietà per sopravvivere e resistere alla guerra nazista, rallentandone o sabotandone i meccanismi appena possibile. Testimoni della tragedia ebraica, trattati appena sopra i russi nella gerarchia del Lager, a fianco di milioni di schiavi provenienti da tutta Europa. Certo ci fu anche chi trovò condizioni più umane, chi fu aiutato dai tedeschi, chi lavorò in campagna, ma la pesantezza del lavoro di fabbrica e nelle miniere, l'impiego di massa nelle grandi opere di difesa orientali, le condizioni della detenzione in lager sparsi in tutta l'Austria e la Germania, le violenze e il disprezzo, rendono l'immagine di una Germania come grande unico lager e quello dei lager come sistema regolativo della manodopera coatta, "esercito del lavoro" nella guerra combattuta dalla borghesia industriale tedesca.
Gli 810mila militari italiani catturati dai tedeschi sui vari fronti di guerra vennero considerati disertori oppure franchi tiratori e quindi giustiziabili se resistenti (in molti casi gli ufficiali furono trucidati, come a Cefalonia). Sono classificati prima come prigionieri di guerra, fino al 20 settembre 1943, poi come internati militari (Imi), con decisione unilaterale accettata passivamente dalla RSI che li considera propri militari in attesa di impiego. Hitler non li riconosce come prigionieri di guerra (KGF) e per poterli "schiavizzare" senza controlli, li classifica "internati militari" (IMI), categoria ignorata dalla Convezione di Ginevra sui Prigionieri, del 1929.
Degli 810mila militari italiani, 94.000 optarono alla cattura per la RSI o le SS italiane, come combattenti (14.000) o ausiliari (80.000). Dei 716.000 IMI restanti, durante l'internamento, 43.000 optarono nei lager come combattenti della RSI e 60.000 come ausiliari. Quindi, oltre 600mila IMI, nonostante le sofferenze e il trattamento disumano subito nei lager, rimasero fedeli al giuramento alla Patria, scelsero di resistere e dissero"NO" alla RSI.
Con gli accordi Hitler-Mussolini del 20 luglio 1944 gli internati vennnero smilitarizzati d’autorità dalla Rsi, coattivamente dismessi dagli Stalag e gestiti come lavoratori liberi civili. Si trattava in realtà di lavori forzati con l'etichetta ipocrita del lavoro civile volontario/obbligato . A quella data i superstiti sono 495 mila, mentre in 50.000 sono morti d'inedia, tbc e violenza. Alla fine della guerra gli ex-IMI fuori dai lager come "lavoratori liberi" sono 495 mila, altri 14 mila invece sono rimasti nei lager.
La fine pesantissima della guerra vedrà questo "esercito abbandonato" coinvolto nelle fine del nazismo, prigioniero dei russi, costretto a spostamenti letali, sottoposto a bombardamenti ogni giorno più pesanti, sempre più vittima della fame e delle malattie. Si valuta in oltre quarantamila il numero di militari italiani deceduti nei territori occupati dal Reich durante l'ultima guerra. La pesantezza del loro internamento e sfruttamento determinò un'altissima mortalità. Il ritorno penoso, rocambolesco o assistito, non offrì occasioni di riscatto: chi tornò lacero e sconvolto trovò una forte concorrenza sul mercato del lavoro, l'indifferenza di un paese che si stava riorganizzando, che voleva dimenticare al più presto la guerra, già immerso nella ricostruzione e in un nuovo quadro internazionale.Lentamente i reduci si reintegrarono, contribuendo per la loro parte, da operai, contadini, manovali, artigiani, nel silenzio della memoria, alla ricostruzione del paese.
da www. schiavidi hitler.it
da Gianni Oliva, "Appunti per una storia di tutti, prigionieri, internati, deportati italiani nella seconda guerra mondiale", Consiglio Regionale del Piemonte, Istituto storico della resistenza in Piemonte ed., Torino 1982, pp. 2-3 e 5-7.
I militari italiani catturati dai tedeschi dopo l'8 settembre e internati nei lager nazisti erano una parte del prezzo della guerra Fascista: non il primo e non l'ultimo, ma certo il più oneroso e drammatico.La Germania hitleriana non poteva né intendeva consentire al ritiro dell'Italia dalla guerra, né perdere i vantaggi strategici ed economici derivanti dal controllo della penisola; e i rapporti di forza nel teatro mediterraneo nell'estate 1943 assicuravano alla Wehrmacht una netta supremazia nei Balcani e nell'Italiacentro-settentrionale. Le truppe italiane dislocate nella penisola balcanica, nell'Europa orientale, in Francia erano comunque destinate ad essere sopraffatte dalle forze tedesche, superiori per armamento, mobilità, appoggio aereo e possibilità di rinforzi. Se il sacrificio di tanta parte delle forze armate era inevitabile, il prezzo fu però pagato nel modo peggiore.
L'8 settembre il re e Badoglio, preoccupati soltanto di salvaguardare la continuità della monarchia e del governo assicurata con la firma dell'armistizio, lasciarono truppe e popolazione senza direttive chiare dinanzi alla pronta e bene organizzata reazione tedesca. Governanti più consapevoli della loro responsabilità, nel difficilissimo momento del rovesciamento di alleanze, avrebbero dovuto assumersi l'onere di ordinare esplicitamente alle truppe di combattere contro il nuovo nemico, oppure di arrendersi senza spargimenti di sangue là dove una resistenza era impossibile (come nei Balcani): qualsiasi direttiva sarebbe stata preferibile alla mancanza di direttive, che, scaricando la scelta della direzione in cui sparare su anziani ufficiali educati all'obbedienza e non a decisioni politiche di questo livello, aggiungeva una tragica crisi morale al disastro materiale. Il compito delle forze tedesche fu così grandemente facilitato: le truppe italiane furono non solo disarmate e fatte prigioniere, ma anche umiliate e gli episodi circoscritti di resistenza armata rapidamente stroncati e duramente pagati (Cefalonia ).
Non si conosce con esattezza il numero dei militari italiani catturati dai tedeschi nei giorni successivi all'8 settembre: confrontando le cifre ufficiali italiane del 1946/47 con quelle tedesche e con dati di singoli reparti, si arriva a un totale, generalmente accettato come orientativo, di 650.000 uomini. Di questi, 550.000 furono deportati nei lager di Germania e Polonia e 100.000 trattenuti nei Balcani, in parte in lager veri e propri, in parte alle dipendenze dirette dei reparti tedeschi.Questi 650.000 internati militari (come li definirono i tedeschi, negando loro la qualifica di prigionieri di guerra in quanto sudditi dell'alleata repubblica di Salò) avrebbero potuto reputarsi traditi dal regime fascista, dalla monarchia, dal governo Badoglio, dai loro comandanti che non avevano saputo reagire alla crisi dell'armistizio, e pensare quindi al proprio interesse immediato, venendo a patti con i tedeschi.Tuttavia, posti dinanzi alla scelta fra una dura prigionia,che per i soldati comportava il lavoro forzato e per tutti fame e vessazioni, e l'adesione al nazifascismo, che apriva la via al ritorno a casa e come minimo garantiva un immediato miglioramento delle condizioni di vita, in grande maggioranza preferirono la fedeltà alle istituzioni e rivendicarono la loro dignità di uomini con una tenace resistenza al nazi-fascismo. Scelsero quindi di restare nei lager in condizioni durissime, che circa 40.000 di loro pagarono con la vita.
I soldati vissero il trauma della cattura e della deportazione in carri bestiame e l'impatto con il sistema concentrazionario nazista in modo non diverso dagli ufficiali: fame, stenti, sistemazioni in baracche inadeguate e affollatissime. Anche a loro fu offerto l'arruolamento nell'esercito nazista o in quello di Salò, seppure con pressioni minori (mentre l'adesione degli ufficiali aveva un rilevante valore politico, quella dei soldati creava piuttosto problemi di inquadramento senza procurare benefici di rilievo sul piano dell'immagine): come al solito, mancano dati precisi, ma il totale dei volontari non dovette superare il l0%.La differenza sostanziale era rappresentata dal lavoro forzato: mentre gli ufficiali furono costretti a lavorare solo nei termini già indicati, i soldati, sin dall'inizio della loro prigionia, vennero obbligati ad un lavoro massacrante di dodici ore quotidiane per sei giorni la settimana. Nel 1943/44 quasi tutti i tedeschi tra i 18 e i 50 anni erano arruolati nella Wehrmacht o nelle varie organizzazioni naziste militari e paramilitari: la produzione industriale e agricola nel Reich dipendeva ormai dalla disponibilità di milioni di braccia straniere, lavoratori civili più o meno volontari, lavoratori coatti prelevati con la forza generalmente nei paesi slavi, prigionieri di guerra, deportati politici ed ebrei. Tra questi milioni di lavoratori erano mantenute rigide divisioni e differenze di trattamento anche notevoli, specie per vitto e disciplina, ma anche i più fortunati erano privati della libertà individuale e costretti ad un lavoro pesante, con la costante minaccia di percosse e di punizioni: era un enorme esercito di schiavi, impiegati quasi soltanto per la loro forza fisica.
I soldati italiani entrarono a far parte di questo esercito a un livello inferiore rispetto ai lavoratori civili e superiore rispetto ai deportati politici e razziali. Quelli che non furono destinati al lavoro nelle fabbriche, vennero impiegati nella manutenzione delle linee ferroviarie, nei lavori agricoli e forestali, nella costruzione di fortificazioni, nello sgombero di macerie, nel caricamento e scaricamento di navi e di treni. La sorte peggiore fu probabilmente quella dei soldati destinati a lavorare nelle miniere di carbone in Renania e in Slesia, dove il lavoro era massacrante, il trattamento pessimo e la disciplina durissima. Un numero imprecisato di soldati conobbe anche gli orrori dei più tristi campi di deportazione: almeno un migliaio di internati furono destinati a Dora, sottocampo di Buchenwald, per la preparazione di installazioni sotterranee e poi per la fabbricazione delle bombe V1 e V2: si sa inoltre che 1800 detenuti del penitenziario di Peschiera furono inviati a Dachau e che in gran parte soccombettero.
L'accordo Hitler-Mussolini dell'estate 1944, che trasformò i militari internati in lavoratori civili, non ebbe ripercussioni particolari tra i soldati. Con ogni probabilità, in molti lager i tedeschi non si curarono di informare gli internati, procedendo d'autorità alla loro "civilizzazione", e in altri lo presentarono come una semplice formalità burocratica: nella sostanza, comunque, nulla cambiava, perché i soldati avrebbero continuato a lavorare come prima. Va tuttavia sottolineato che, nonostante le pressioni dell'ambiente, le durezze delle condizioni di vita e l'oggettiva difficoltà ad organizzarsi per la dispersione nei vari "Arbeitskommando", il l° gennaio 1945 (secondo fonti tedesche) 69.300 fra soldati e ufficiali persistevano nel rifiuto di firmare il provvedimento di "civilizzazione": una forma di resistenza marginale, ma di estremo valore ideale perché condotta soltanto in nome della propria dignità di uomini e di soldati.
Per quanto riguarda gli ultimi mesi di prigionia, la liberazione, l'attesa del rimpatrio e infine il ritorno in Italia, le vicende dei soldati furono simili a quelle degli ufficiali. Sul fronte orientale, la liberazione fu però segnata da brutali massacri da parte dei tedeschi ormai in rotta: 130 soldati furono impiccati a Hildesheim il 27 e 28 marzo, una trentina fucilati a Bad Gandersheim in aprile, 150 a Treunbrietzen il 23 aprile. Valgano questi drammatici episodi come ammonimento a non dimenticare gli altri eccidi di prigionieri italiani perpretati dai nazisti nei territori balcanici e orientali, che la memorialistica non può documentare.
Un libro uscito recentemente, di Gabriele Hammermann, Gli Internati militari italiani in Germania 1943-45 ed Il Mulino, ricostruisce con un'ampia documentazione e testimonianze significative la storia e le esperienze degli IMI. Un nuovo momento di riflessione e di conoscenza, x me, nel ricordo di un padre che è stato uno degli IMI che sempre disse quel NO a Salò ed al fascismo, in nome della libertà e della dignità umana