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mercoledì 18 marzo 2015

"Chi ha deciso di dare una medaglia a un ufficiale fascista?"

"Chi ha deciso di dare una medaglia a un ufficiale fascista?": dichiarazione del Presidente Nazionale ANPI

Ho appreso dalla stampa la notizia della consegna di una medaglia, in una sala della Camera dei deputati, dove si trovavano anche il Presidente della Repubblica e la Presidente della Camera, ad un fascista della Repubblica di Salò: Paride Mori. La notizia appariva così incredibile (e grave) che sono stato lieto di apprendere, da una dichiarazione emanata dalla Presidenza della Camera, che la Presidente Boldrini non aveva dato alcun premio, né aveva in alcun modo concorso ad individuare il nome del “premiato” tra quelli meritevoli di onorificenza (sono parole pressoché testuali del comunicato della Presidenza della Camera).
Altrettanto credo sia accaduto per il Presidente Mattarella, ma non è possibile anticipare nulla al riguardo, finché non ci sarà qualche comunicazione da parte del Quirinale.

Di certo, un’onorificenza è stata consegnata dal Sottosegretario Del Rio e dunque a nome della Presidenza del Consiglio. Anche il Sottosegretario ignorava tutto? Sembrerebbe impossibile; comunque, chi ha proposto e deciso quella onorificenza proprio nell’anno del 70° anniversario della Resistenza? A quali criteri ha obbedito la speciale Commissione che valuta per la Presidenza del Consiglio le onorificenze? È veramente difficile accontentarsi della prospettazione di un “errore”, a fronte di situazioni che imporrebbero una vera sensibilità democratica.

Pensiamo che su questo debba essere fatta chiarezza assoluta ed al più presto. Altrimenti dovremmo pensare che la Presidenza del Consiglio, che si propone di celebrare il 25 aprile e il 70° è disponibile, al tempo stesso, a riconoscere “i meriti” di chi militò dalla parte della dittatura, del fascismo, della persecuzione degli ebrei, degli antifascisti e dei “diversi”. Davvero, tutto questo appare inconcepibile; l’ANPI attende, comunque, chiarimenti precisi e definitivi e, soprattutto, che ognuno si assuma le responsabilità che gli competono. Dopo di che, prenderemo – a ragion veduta – le nostre posizioni di antifascisti e di combattenti per la libertà, che non conoscono né tentennamenti né ambiguità, ma si riconoscono nella vera storia del nostro Paese e nella Costituzione che lo regola e pretendono che altrettanto facciano le istituzioni
CARLO SMURAGLIA
Presidente Nazionale ANPI
Roma, 16 marzo 2015

Ho letto anch'io la notizia sul quotidiano e sono rimasta attonita 
Che anche questo governo stia iniziando a fare cose strane è da un po' che lo penso, ma arrivare a dare una medaglia ad un fascista è grave 
Mio padre , IMI per due anni nei campi di sterminio di Hitler, non c'è più, ma mia mamma che tra due settimane compirà 91 anni, ricorda ancora , e molto bene, cosa hanno fatto i fascisti che erano negli uffici sequestrati della Ferriera Cobianchi a Omegna, dove lei era impiegata, e tutto quello che ha visto quando andava di notte con le suore in ospedale a curare i feriti, i partigiani nascosti. 
 Questo episodio mi fa rabbrividire per la leggerezza con cui si è deciso di dare una medaglia a chi non era di certo dalla giusta parte 
Non si può dimenticare cosa era il fascismo e cosa hanno subito i nostri genitori che fascisti non lo erano. Hanno rischiato la vita e le conseguenze di quel terribile periodo li ha accompagnati per tutta la vita, ed ancora li accompagna
Vergogna che il governo non abbia pensato alle conseguenze Vergogna e profonda delusione per noi figli delle vittime del fascismo

sabato 8 novembre 2014

Profanazione

 COMUNICATO  ANPI PROVINCIALE DI MILANO

ESECRAZIONE ANPI  DI MILANO PER LA PROFANAZIONE DEL SACRARIO DEL SAN MARTINO CUVEGLIO 

L’ANPI Provinciale di Milano esprime la sua profonda esecrazione per la profanazione del Sacrario del San Martino, avvenuta sabato 1 novembre 2014.
I militanti neofascisti che si sono persino fatti fotografare hanno piantato nel terreno duecento rune in legno e, al posizionamento delle rune, hanno aggiunto la svastica e il fascio littorio.

Questa oltraggiosa e ignobile azione che si pone in aperto contrasto con i principi su cui si fonda la Costituzione Repubblicana nata dalla Resistenza, offende i combattenti e i caduti della battaglia del Monte San Martino, tra cui il colonnello Carlo Croce, insignito della Medaglia d’Oro al Valor Militare alla Memoria. La battaglia del San Martino, del novembre del 1943, alla quale parteciparono numerosi combattenti milanesi, costituisce uno dei primi e significativi esempi di opposizione all’occupazione nazifascista e viene  ricordata come l’episodio che diede inizio alla lotta partigiana nel Nord Italia.

L’ANPI Provinciale di Milano manifesta la sua preoccupazione per il rifiorire di movimenti neonazisti e neofascisti nel cuore dell’Europa e nel nostro Paese che si contrappongono ai valori della libertà, della solidarietà, della pace, della tolleranza, su cui è fondata la nostra civiltà.

Mentre ritiene indispensabile sviluppare, per contrastare i rigurgiti neofascisti e neonazisti, una vasta controffensiva sul piano ideale, culturale e storico, chiede l’intervento delle istituzioni e delle autorità competenti e l’applicazione della legislazione vigente perché episodi vergognosi come quelli della profanazione del Sacrario del San Martino non si debbano più ripetere.
Milano, 3 Novembre 2014

Roberto Cenati
Presidente ANPI Provinciale di Milano  

domenica 8 giugno 2014

D Day

Il 6 giugno 1944 iniziava lo sbarco alleato in Normandia.  !30 mila uomini , inglesi canadesi ed americani, arrivarono davanti alle coste francesi e combatterono contro i soldati tedeschi per liberare l'Europa  dal Nazismo
Venerdì , 70 anni dopo, migliaia di veterani sono tornati su quelle spiagge normanne teatro della più grande operazione militare mai compiuta prima, l’Overlod,  dove  videro tanti loro giovani compagni morire sotto il fuoco nemico E con loro gli unici due capi di Stato ancora viventi fra i 20 capi di Stato che erano sulle spiagge, pressoché coetanei, che ad ogni incontro si soffermano sempre a rievocare insieme quella lontana stagione sulle cui ceneri nacque la nuova Europa della democrazia : Elisabetta II di Windsor,  a quell’epoca appena diciottenne ma che si era già fatta i nove bombardamenti nazisti   subiti da Buckingham Palace, e  Giorgio Napolitano, allora non ancora diciannovenne che già aveva subìto i durissimi bombardamenti alleati nella sua Napoli e che nel giugno del ’44 stava facendo  la sua prima esperienza lavorativa nell’American Red Cross .  

«I lunghi singhiozzi dei violini d’autunno...», scandì ripetutamente Radio Londra l’1 giugno del 1944 avvertendo in codice la resistenza francese che il tempo per lo sbarco degli alleati in Normandia s’era fatto breve.  
«Mi feriscono il cuore con languore monotono..» proseguì il 5, coi versi successivi della stessa «Poesia d’autunno» di Verlaine, annunciando che il D-Day era giunto, e omettendo la strofa successiva e pericolosamente significativa, «l’ora è suonata».
Il 4 giugno gli Alleati erano arrivati anche a Roma accolti da liberatori dalla popolazione ma la guerra in Italia del nord continuò per altri lunghi sanguinosi mesi fino al 25 aprile 1945
Il presidente italiano, invitato personalmente alle cerimonie  per il settantesimo anniversario dal presidente francese Hollande , ha ritenuto tale invito, giunto per la prima volta  dal tavolo dei vincitori della seconda guerra mondiale, un onore 
Di quell’ invito Napolitano ne ha dato pubblica notizia  nel discorso per la Liberazione nel quale ha rimarcato che la Resistenza fu «un grande moto civile ed ideale» contro il nazismo, grazie al quale l’Italia passò « dall’ umiliazione alla riscossa», giungendo poi alla libertà e alla democrazia. 
L' invito è stato accettato «in nome di un popolo che aveva rotto nel 1943 con il fascismo e con l’asservimento alla Germania hitleriana, e in nome delle nostre nuove forze armate ,che allora già combattevano in Italia insieme alle forze anglo-americane». Ricordando poi anche che «due giorni prima dello sbarco in Normandia, il 4 giugno del 1944, le forze alleate erano già entrate a Roma come liberatrici anche grazie all’eroico contributo della Resistenza romana».  
L’onore tributato dall’Italia alle celebrazioni trova nelle parole di Napolitano la corrispondenza e l’orgoglio del riconoscimento di quei valori italiani sui quali è  fondata la nostra Costituzione 
Una giornata  storica molto importante,  per l'Italia, soprattutto, perché  il nostro paese 70 anni fa con Mussolini stava dalla parte sbagliata, quella del nazifascismo sconfitto!...

domenica 27 aprile 2014

Manifestazione nazionale ANPI

L'ANPI Nazionale ha organizzato per martedì' 29 aprile 2014 alle ore 16.30 presso il Teatro Eliseo, Corso Nazionale (vicino a piazza Esedra) Roma, una importante Manifestazione pubblica sul progetto di riforma costituzionale ed elettorale all'esame del Parlamento.

Interverranno:CARLO SMURAGLIA, LORENZA CARLASSARE, STEFANO RODOTA’, GIANNI FERRARA  

L'iniziativa vuole lanciare l'allarme contro un progetto che, unendosi alla legge elettorale come quella che è' stata approvata alla Camera ed al proposito di irrobustire i poteri del Presidente del Consiglio e del Governo, si risolverebbe in una ulteriore e grave riduzione degli spazi di democrazia, che subiscono da tempo una lenta ma progressiva erosione e che, invece, l'ANPI considera intangibili, alla luce dei principi e dei valori costituzionali

“Riforme, rappresentanza, coerenza costituzionale nel cambiamento: una questione democratica”
Antifascisti e democratici insieme per lanciare l’allarme contro un progetto che, unendosi ad una legge elettorale come quella che è stata approvata alla Camera ed al proposito di irrobustire i poteri del Presidente del Consiglio e del Governo, si risolverebbe (oltretutto) in una ulteriore e grave riduzione degli spazi di democrazia, che subiscono da tempo una lenta ma progressiva erosione e che, invece, l’ANPI considera intangibili, alla luce dei princìpi e dei valori costituzionali.
Troviamoci insieme con la voce delle radici, di quell’antifascismo e di quella Resistenza da cui la democrazia ha preso le mosse e da cui non è possibile prescindere.  www.anpi.it

Il Comitato nazionale dell’ANPI rileva che:
- l’indirizzo che si sta assumendo nella politica governativa in tema di riforme e di politica istituzionale non appare corrispondente a quella che dovrebbe essere la normalità democratica;
- si sta privilegiando il tema della governabilità (pur rilevante) rispetto a quello della rappresentanza (che è di fondamentale e imprescindibile importanza)
- si continua nel cammino - anomalo - già intrapreso da tempo, per cui è il Governo che assume l’iniziativa in tema di riforme costituzionali e pretende di dettare indirizzi e tempi al Parlamento;
- un rinnovamento della politica e delle istituzioni è essenziale per il nostro Paese, come già rilevato nel documento dell’ANPI del 12 marzo 2014;
- sono certamente necessari aggiustamenti anche del sistema parlamentare, così come definito dalla Costituzione, rispettando peraltro non solo la linea fondamentale perseguita dal legislatore costituente, ma anche le esigenze di centralità del Parlamento, della rappresentanza dei cittadini, del controllo sull’attività dell’Esecutivo, delle aziende e degli enti pubblici, in ogni loro forma e manifestazione;
- in questo contesto, è giusto superare innanzitutto il cosiddetto bicameralismo “perfetto”, fondato su un identico lavoro delle due Camere e quindi, alla lunga, foriero anche di lungaggini e difficoltà del procedimento legislativo; ma occorre farlo mantenendo appieno la sovranità popolare, così come espressa fin dall’art. 1 della Costituzione e garantendo una rappresentanza vera ed effettiva dei cittadini, nelle forme più dirette;
- il Senato, dunque, non va “abolito”, così come non va eliminata l’elezione da parte dei cittadini della parte maggiore dei suoi componenti; possono essere individuate anche forme di rappresentanza di altri interessi, nel Senato, come quelli delle autonomie locali, della cultura, dei saperi, della scienza; ma in forme tali da non alterare il delicato equilibrio delle funzioni e della rappresentanza;
- la maggior parte dell’attività legislativa può ben essere assegnata alla Camera, così come il voto di fiducia al Governo; ma individuando nel contempo forme di partecipazione e tipi di intervento da parte del Senato, così come previsto in molti dei modelli già esistenti in altri Paesi;
- in nessun modo il Senato può essere escluso da alcune leggi di carattere istituzionale, nonché dalla partecipazione alla formazione del bilancio, che è lo strumento fondamentale e politico dell’azione istituzionale e dei suoi indirizzi anche con riferimento alle attività di Autonomia e Regioni;
- tutto questo può essere realizzato agevolmente, anche con una consistente riduzione di spese, non solo unificando la gran parte dei servizi delle due Camere, ma anche riducendo il numero dei parlamentari, sia della Camera che del Senato, vista l’opportunità offerta dalla differenziazione delle funzioni;
- bisogna anche dire che concentrare tutti i poteri su una sola Camera, per di più composta anche col premio di maggioranza, lasciando altri compiti minori ad un organismo non elettivo, con una composizione spuria e fortemente discutibile ed obiettivi e funzioni altrettanto oscure, non appare rispondente affatto al disegno costituzionale, dotato di una sua intima coerenza proprio perché fatto di poteri e contropoteri e di equilibri estremamente delicati; un disegno che in qualche aspetto può – e deve – essere aggiornato, ma non fino al punto di stravolgere quello originario.

Queste sembrano, all’ANPI, le linee fondamentali di un cambiamento democratico delle istituzioni, che esalti il ruolo del Parlamento, rafforzi la rappresentanza dei cittadini in tutte le sue espressioni, ed assegni ad ognuna di esse il ruolo che le compete secondo gli orientamenti generali della Carta Costituzionale e le esigenze della democrazia, da perseguire con economicità di spesa ed efficienza dei risultati.
Appare, altresì, pacifico che deve essere riformato il titolo V della Costituzione, procedendo ad una più razionale ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni, che elimini ragioni di conflitto e consenta agli organi centrali dello Stato di esprimere una legislazione di pieno indirizzo su materie fondamentali per tutto il territorio; definisca compiutamente e definitivamente il ruolo delle Regioni, a loro volta bisognose di riforme sulla base dell’esperienza realizzata dal 1970 ad oggi, che spesso le ha viste diventare altri organismi di centralizzazione dei poteri e le riconduca a funzioni di indirizzo e controllo e non di gestione; nonché precisi in modo conclusivo tutta la materia delle Province e degli enti intermedi, finora risolta con provvedimenti parziali che non sembrano corrispondere ad esigenze di effettiva razionalità e di contenimento delle spese.
Tutto questo richiederà tempi più adeguati, escluderà la fretta, rispondente, piuttosto che ad esigenze razionali, ad altro tipo di logiche; ma dovrà essere affrontato senza tergiversazioni e senza inopinati stravolgimenti dei metodi e degli stessi contenuti. Se è giusto porre rimedio ad alcune incongruenze strutturali rivelate dall’esperienza, l’obiettivo deve essere quello di farlo con saggezza e ponderazione, ed anche con le competenze necessarie, sempre preferibili alla improvvisazione ed all’incoerenza di una fretta dettata da ragioni molto lontane dal rispetto con cui si devono affrontare serie riforme costituzionali.
Ci sono, sul tappeto, diverse proposte; altre sono fornite dall’esperienza giuridica e politica di altri Paesi; le si esamini senza pregiudizi e insofferenze ed ascoltando pareri e proposte che possono contribuire al miglior esito delle riforme.
E si approfitti dell’occasione per un ripensamento della legge elettorale, che così come approvata da un ramo del Parlamento, non risponde alle esigenze di una vera rappresentanza e di democrazia e soprattutto contraddice, oltre alle attese di gran parte dei cittadini, le stesse indicazioni della Corte Costituzionale.
Infine, l’occasione non appare idonea per raccogliere l’antica esigenza, manifestata da altri Governi e sempre respinta, di un rafforzamento
A.N.P.I.
A S S O C I A Z I O N E N A Z I O N A L E P A R T I G I A N I D ’ I T A L I A
COMITATO NAZIONALE

... Quando si tratta di difendere valori che si richiamano alla Costituzione ed alla democrazia, oltreché ai diritti di fondo in cui si esprime la sovranità popolare, l’ANPI non può che essere in campo, non per conservare, ma per innovare, restando però sempre ancorata ai valori ed ai princìpi della Costituzione.
Questa non è l’ora della obbedienza ai diktat, ma è quella della mobilitazione, a cui chiamiamo tutti i cittadini, per fare ciò che occorre con la dovuta ponderazione e col rispetto e la salvaguardia degli interessi fondamentali dei cittadini, che certo aspirano ad un rinnovamento, ma in un contesto equilibrato e democratico, corrispondente alle linee coerenti e chiaramente definite dalla Costituzione repubblicana.
IL COMITATO NAZIONALE DELL’ANPI
aprile 2014

lunedì 27 gennaio 2014

Il Giorno della Memoria

 " Il Giorno della Memoria è stato istituito, dal Parlamento italiano, con la legge n. 211 del 20 luglio 2000 “Istituzione del “Giorno della Memoria” in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti”. 
All’articolo 1 la Legge n. 211 stabilisce che “La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, “Giorno della Memoria” (...)”.
La tragedia della deportazione non finisce, in realtà, con l’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, il 27 gennaio del 1945.
Quando l’esercito sovietico comincia ad avvicinarsi ai campi di sterminio, gli internati superstiti vengono evacuati e costretti a mettersi in cammino verso l’Occidente. Dei 66.000 evacuati da Auschwitz persero la vita circa 15.000 persone. Negli ultimi due mesi di guerra 250.000 prigionieri sono costretti a compiere le marce della morte. La data che segna la definitiva liberazione dei lager è il 5 maggio 1945, quando gli uomini della 11a Divisione corazzata americana del generale Patton liberano Mauthausen.
Primo Levi ricorda che “il sistema concentrazionario nazista rimane un unicum, sia come mole sia come qualità. In nessun altro luogo e tempo si è assistito ad un fenomeno così imprevisto e così complesso: mai tante vite umane sono state spente in così breve tempo, e con una così lucida combinazione di ingegno tecnologico, di fanatismo e di crudeltà”.
Nel Giorno della Memoria, accanto alla Shoah che costituisce la più grande tragedia del Novecento con lo sterminio di sei milioni di ebrei, si ricorda la deportazione da parte dei nazisti che, in Italia, trovano una validissima collaborazione nella Repubblica di Salò, degli oppositori politici e dei lavoratori arrestati a seguito
degli scioperi del marzo 1944. 
Il New York Times e Radio Londra definirono quegli scioperi che videro la partecipazione accanto agli operai delle più importanti fabbriche, dei colletti bianchi, di docenti universitari e di studenti, come “la più grande manifestazione di massa mai effettuata nell’Europa occupata dai nazifascisti”
La repressione nazifascista fu durissima e fu attuata sulla base di precisi elenchi fatti compilare dalle direzioni
aziendali. La deportazione politica ha assunto a Milano e nell’area industriale di Sesto San Giovanni, notevoli dimensioni per la grande e compatta partecipazione dei lavoratori agli scioperi del 1944. 
Quasi tutti gli arresti avvenivano di notte, nelle case, ed erano effettuati dalla Guardia Nazionale Repubblicana, dalla Muti, dall’Ufficio Politico Investigativo. 
Mentre per gli ebrei la destinazione prevalente era il lager di Auschwitz, per gli oppositori politici e i lavoratori la meta obbligata era Mauthausen, con i suoi quarantanove sottocampi. 
Chi arriva a Mauthausen è immediatamente consapevole che in quel campo si è vivi solo e sino a quando si è in grado di lavorare, perché il diritto alla vita esisteva, ma non competeva a chi non era idoneo al lavoro.
Sin dall’stituzione del Giorno della Memoria, il Comitato Permanente Antifascista per la difesa dell’ordine repubblicano, in stretto accordo con la Comunità Ebraica milanese e con la Fondazione Memoria della Deportazione si è fatto promotore di iniziative volte a ricordare le tragedie provocate dall’avvento del nazifascismo in Europa, nella consapevolezza che un Paese senza memoria non può avere alcun futuro. 
 Nelle significative iniziative per il Giorno della Memoria, va sempre tenuto presente il messaggio di coloro che non sono ritornati dalla deportazione: quello di non negare lo sterminio dove è stato praticato, di non banalizzare e non confondere tutto con la sola violenza o la natura malvagia dell’uomo (perché la violenza aveva un solo nome: nazifascismo), di non dimenticare l’organizzazione specifica di un trattamento che programmaticamente annientava con il lavoro e programmaticamente sopprimeva con il gas gli inabili. 
La ricorrenza del Giorno della Memoria ci deve fare riflettere  . 
Fare memoria legandola alla conoscenza storica significa combattere l’oblio che tende a cancellare le differenze, significa far rivivere, nella società contemporanea, che sembra aver perso la propria identità, i valori della pace, della solidarietà, della giustizia sociale, della politica posta al servizio del bene comune che animarono i combattenti per la libertà e coloro che resistettero nei lager nazisti. 
Da quella resistenza all’oppressione è nata quel bellissimo dono che è la Costituzione repubblicana.
Etty Hillesum, un’ebrea olandese morta ad Auschwitz il 30 novembre 1943, così scrive nel suo diario dal campo di concentramento olandese di Westerbork, da dove, ogni lunedì partivano treni con destinazione Auschwitz: “Se noi salveremo i nostri corpi e basta dai campi di prigionia sarà troppo poco. Se non sapremo offrire al mondo impoverito del dopoguerra nient’altro che i nostri corpi salvati a ogni costo – e non un nuovo senso delle cose, attinto dai pozzi più profondi della nostra miseria e disperazione – allora non basterà. Dai campi stessi dovranno irraggiarsi nuovi pensieri, nuove conoscenze dovranno portar chiarezza oltre i recinti di filo spinato”.
Questo è il monito più profondo che  viene dalla tragedia provocata dal nazifascismo e che  deve rendere vigili sui pericoli che le nostre democrazie possono ancora correre per i rigurgiti neofascisti e neonazisti che pervadono l’Europa. 

Il 27 gennaio ricorre  l' anniversario della Liberazione del campo di concentramento di Auschwitz da parte dell’Armata Rossa sovietica, data scelta a livello internazionale quale “Giorno
della Memoria”, in cui ricordare gli oltre 12 milioni di vittime delle deportazioni e dello sterminio nei campi di concentramento nazifascisti.
 Dopo ben 55 anni, in Italia, nel luglio del 2000, il Parlamento giunse all’approvazione della Legge N. 211/2000 che nel primo articolo stabilisce: “La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, “Giorno della Memoria”, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita, hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati”.
Il ricordo delle vittime del razzismo, della deportazione dei Rom, dei diversi e dei non normodotati, finalmente diventa un’indicazione dello Stato. 
Gli italiani deportati furono circa 44.000, di cui 8.600 ebrei, 30.000 partigiani, antifascisti e lavoratori (la maggioranza arrestati e deportati dopo gli scioperi del 1944) e circa 5.000 IMI: il 90% di essi morì nei lager.
Spesso, quando si ricorda la tragedia delle deportazioni italiane, i lavoratori vengono dimenticati o considerati solo marginalmente, mentre essi costituiscono la maggioranza dei deportati italiani. I lavoratori italiani hanno avuto un ruolo fondamentale nella lotta contro il fascismo e la guerra, per riconquistare la libertà e la democrazia.
Due momenti importanti della lotta di Liberazione che videro protagonisti i lavoratori furono gli scioperi del marzo 1943 e 1944. Nel 1943, il 5 marzo, gli scioperi iniziarono a Torino alla Fiat Mirafiori; nei giorni e nelle settimane successive si estesero in Piemonte e poi – a partire dalla Falck – in Lombardia. Gli scioperanti nel 1943 – contro la guerra e il fascismo – furono oltre 150.000 e lavoravano in 217 aziende.
Molti furono gli arresti e le repressioni fasciste. Questa mobilitazione contribuì alla destituzione di Mussolini e alla costituzione del governo Badoglio., a cui seguì,  l’8 settembre ’43, l’Armistizio con gli anglo-americani e l’occupazione nazista del Nord Italia.
I lavoratori svilupparono, sul finire del 1943 e l’inizio del ’44, lotte in varie fabbriche, rivendicando contemporaneamente: fine della guerra, fornitura di alimenti, il diritto al servizio mensa con primo e secondo, adeguamenti salariali, parità donna uomo. 
Le truppe naziste del Comando Militare di Milano – dirette dal generale Zimmermann – entravano nelle fabbriche in sciopero come la Falck di Sesto San Giovanni, la Pirelli Bicocca, la Franco Tosi di Legnano, arrestando e poi deportando decine, centinaia di lavoratori.
Nel marzo  1944, oltre un milione e mezzo di lavoratori del Nord Italia, attuarono lo sciopero generale. La mobilitazione a Milano e a Torino iniziò con lo sciopero dei tranvieri che bloccarono i trasporti per una settimana.
Lo sciopero si estese a tutte le fabbriche, nelle banche; i tipografi e i giornalisti bloccarono la pubblicazione per cinque giorni del Corriere della sera.
Durante gli scioperi i nazisti arrestarono decine di migliaia di lavoratori (operai, impiegati, dirigenti), e li deportarono.
Molti partirono chiusi nei vagoni merci dal “Binario 21” della Stazione Centrale di Milano, sino ai campi di sterminio.
 Sono 553 i lavoratori - di cui 417 operai, 31 manovali, 17 impiegati, 14 tecnici e dirigenti dipendenti della Breda, della Pirelli, della Falck, dell’Ercole Marelli e della Magneti Marelli - deportati e ricordati dal monumento al Parco Nord di Milano.
La fabbrica italiana con il maggior numero di lavoratori deportati è la Breda di Sesto, con 199 deportati, 122 dei quali non hanno fatto ritorno.
Gli scioperi dei lavoratori italiani - unici in Europa durante la guerra - ebbero una ricaduta politica mondiale, come sottolineato dal New York Times del 9 marzo 1944, che tra l’altro scrisse: “Non è mai avvenuto nulla di simile nell’Europa occupata che possa somigliare alla rivolta degli operai italiani disarmati come sono, sanno combattere con coraggio e audacia quando hanno una causa per cui combattere”.
E'  indispensabile informare e formare le nuove generazioni sulla tragedia dei campi di sterminio che ha colpito i diversi, gli ebrei, gli antifascisti, i lavoratori, affinché fascismo e razzismo, vecchio e nuovo, non abbiano più cittadinanza in nessun paese civile.
Tutto ciò è possibile solo se si fanno vivere i valori che portarono i lavoratori alle lotte e al sacrificio della vita; gli stessi valori che sono fissati nella Costituzione repubblicana, che va fatta rispettare e attuare.  

Quando venne istituito il Giorno della Memoria (in Italia nel 2000, dall’ONU nel 2005 e altrove in altre date), si poté legittimamente considerarlo come il punto d’arrivo d’una presa di coscienza comune a buona parte dell’opinione pubblica mondiale, e specialmente di quella europea e occidentale in genere. A più
di 50 anni   dalla fine della guerra si riconosceva la specificità – anche e soprattutto dal lato delle vittime: il popolo ebraico – di quello che Churchill già immediatamente a ridosso dei fatti, ed anzi mentre ancora quasi si svolgevano, aveva definito “probabilmente il più grande e il più orribile crimine mai commesso nell’intera storia del mondo”.
In realtà, si trattava di qualcosa ch’era iniziato davvero qualche decennio prima, quando, almeno a partire dagli anni 70 (ma forse dal 1961, l’anno del processo Eichmann in Israele), il dibattito storiografico, ma anche la riflessione e l’interpretazione, oltreché la rappresentazione attraverso la letteratura, il cinema, ecc., avevano conosciuto un’impennata straordinaria, come se davvero fosse finalmente insorta, dopo lunga maturazione, una nuova consapevolezza, uno sguardo sullo sterminio degli ebrei che riusciva a staccarlo dallo sfondo, a stagliarlo e illuminarlo di luce propria rispetto alle complessive vicende della Seconda Guerra Mondiale.
 Erano stati in particolar modo gli ebrei che non soltanto si erano già dati un loro “Giorno della Memoria” tra il 1953 e il 1959 (Yom ha- Shoah), ma soprattutto avevano già da un pezzo rielaborato in profondità la loro memoria ed anzi il loro vissuto, individuale e collettivo a un tempo, dell’Evento, mentre era la coscienza
pubblica “generale” che era nel frattempo maturata abbastanza da invocare, reclamare quasi, una giornata memoriale che fosse significativa e parlasse a tutti e per tutti, e soprattutto ai giovani delle nuove generazioni. Naturalmente, gli ebrei non potevano che vedere con favore e soddisfazione tutto quel lavorio e tutto quel fervore, che parevano davvero annunciare piena giustizia storica e, per il presente e il futuro, nuova consapevolezza e nuovo rispetto nei loro confronti. Mentre erano da considerarsi fisiologiche e un po’ scontate, almeno finché minoritarie, le voci dissonanti di chi accusava la parte ebraica di: vittimismo esagerato, esclusivismo e magari anche utilizzo improprio della memoria storica per giustificare, per esempio, l’esistenza e tutta l’azione “nel presente” dello Stato d’Israele.
In realtà, al di là del puro ricordare, richiamare alla memoria  “quel ch’è stato”, quali potevano essere le finalità più profonde e radicali nell’istituire una ricorrenza del genere? Il Giorno della Memoria doveva senza dubbio testimoniare del significato universale di quanto accaduto al popolo ebraico (ma anche ad altri,  e soprattutto agli zingari) durante la Seconda Guerra Mondiale e far riflettere, contemporaneamente, sulla
inaggirabile questione del: “perché gli ebrei?”. In effetti, i nazisti tedeschi e i loro complici vollero certo annientare l’uomo che era nell’ebreo, ma forse ancor più l’ebreo che è in ogni uomo, e cioè la forza superbamente umana, e davvero “universale”, della differenza, dell’individualità e della libera identità. Poiché è questa la vera, profonda universalità della condizione ebraica, quella che alla fine provoca nel profondo l’antisemita e il “fascista” di ogni tempo e che spiega, tra l’altro, la radicalità e l’unicità della Shoah.
 Com’è ormai consapevolezza diffusa, una Giornata della Memoria aveva, doveva avere, la funzione primaria di far riflettere la collettività nazionale dei diversi paesi su quelle che erano state anche le proprie responsabilità, traendone il massimo di coscienza storico politica per il presente e per il futuro.
 La memoria non poteva che rimandare continuamente al “sapere” e alla storia ricostruita sempre meglio
e sempre più in profondità. Anche perché soltanto una storia così intesa avrebbe permesso di riconoscere le responsabilità
 Quelle aspettative nei confronti del Giorno della Memoria sono andate, nel tempo, e forse non poteva essere altrimenti, largamente disattese se non francamente deluse. Molti, ebrei e non ebrei, non possono che prendere atto delle derive di una memoria così spesso istituzionalizzata, banalizzata, ritualizzata, rappresentata e celebrata nella pura ripetizione. Dove persino la ricorrente e giusta osservazione che la memoria non possa essere coltivata soltanto un giorno all’anno ma debba esserlo sempre, tutti i giorni dell’anno, è diventata una banale ovvietà, di quelle che rinviano soltanto la risposta che si deve dare a un problema senza averne compreso il significato reale.

Cosa può il Giorno della Memoria di fronte alla crisi del nostro tempo, non solo economico-sociale ma anche etico-politica e dei valori , che non solo conferma la ripetibilità del male – e sia pure non esattamente quel male, per intensità e radicalità, oltreché intenzionalità totale nell’annientamento di un popolo – ma persino una ripetizione puntuale di quel male, o almeno dei suoi presupposti fondamentali, e dunque l’antisemitismo, e il negazionismo, e le mille altre cose orribili che puntualmente rialzano oggi la testa, e con tanto maggior vigore nella società della “comunicazione globale”?
Eppure  la “memoria”, anche quella più ufficiale, mantiene il suo carattere di assoluta necessità,  perché  nella sua realtà storica ma anche nella sua proiezione verso il presente e verso il futuro, è cosa che oltrepassa ogni   possibile strategia esistenziale e anche politica... " 

giovedì 12 dicembre 2013

Malala Yousafzai

 
  Malala Yousafzai a qattordici anni   sfidò i talebani, che successivamente  le spararono fuori dalla scuola
La giovane studentessa pachistana aveva in precedenza scritto un diario sulla sua vita nella provincia di Swat, al confine con l’Afghanistan,controllata dagli estremisti, ed era diventata un simbolo
In quella zona, dal 2003 al 2009 i talebani avevano preso il controllo   e vietato l’istruzione femminile, distruggendo centinaia di scuole. Nel luglio 2009, dopo furiosi combattimenti, l’esercito li  aveva sconfitti, e da allora il governo aveva incoraggiato i turisti a tornare a visitare quella che, una volta, era una popolare destinazione sciistica. 
Ma il tentativo di uccidere Malala fece capire quanto pericolo ci fosse ancora per le donne e per la loro istruzione
Un uomo barbuto  sparò alla ragazzina all’uscita della scuola, colpendola alla testa 
 Poco dopo arrivò la rivendicazione dei talebani pachistani: "L’abbiamo attaccata perché diffondeva idee laiche fra i giovani e faceva propaganda contro di noi. Oltretutto, considerava Obama il suo idolo».
 Il premier pachistano Raja Pervez Ashraf  mandò un elicottero per trasferire Malala in ospedale. Si infuriarono gli opinionisti pachistani e rimasero sotto choc molti cittadini, nel  Paese che pure è tristemente abituato alla violenza.
Malala   non era una ragazzina qualunque. Era la studentessa più nota del Pakistan   Prima di sparare, pare che l’assalitore avesse chiesto: «Dov’è Malala?». La ragazzina era vista come un pericolo dai talebani  per  la sua età, perché rappresentava le nuove generazioni. Pur non sapendo cosa fare da grande credeva che l’istruzione fosse un suo diritto. Pur non negando di avere paura, la sua voglia di studiare si era rivelata più forte. Mentre a Swat i talebani decapitavano la gente per «comportamenti anti-islamici», lei continuava ad andare a scuola e, nel 2009, a undici anni, aveva scritto un diario online per la Bbc raccontando sotto pseudonimo la sua vita di studentessa.   Era un diario in urdu, stampato anche su un giornale locale, accessibile a chi non sa l’inglese, per dare coraggio ad altre bambine e alle loro famiglie. 
Quando i talebani furono sconfitti a Swat, Malala fece ciò che molti adulti non hanno avuto  il coraggio di fare: li   criticò pubblicamente in tv. Ricevette molte minacce e sperimentato le conseguenze dell'attivismo, ma   difese l'importanza dell'istruzione: «Dateci delle penne oppure i terroristi metteranno in mano alla mia generazione le armi».
Perciò l'attacco contro di lei è stato un avvertimento a tutti coloro che lavorano per le donne e le ragazze. Ed un monito alle famiglie divise tra l'attrattiva delle libertà occidentali e il rispetto delle tradizioni locali. «Dopo l'operazione dell'esercito la situazione è tornata alla normalità - aveva detto Malala -. Speriamo che ricostruiscano le scuole al più presto. Ora tutti sono liberi di studiare e le ragazze non hanno paura dei talebani».

mercoledì 5 giugno 2013

Don Gallo

La Segreteria Nazionale ANPI esprime profondo cordoglio per la scomparsa di Don Andrea Gallo e si stringe attorno al dolore della Comunità di San Benedetto e delle cittadine e dei cittadini  di Genova. 
Il Paese intero perde con Don Gallo un autentico servitore dell’antifascismo e della Costituzione, vissuti nel profondo e diffusi tra la gente, per le strade senza mai lesinare coraggio, fiato e speranza.
E’ stato un solido punto di riferimento e voce dei bisognosi, dei diseredati, degli inascoltati dal potere: da qualsiasi posto emergesse una richiesta accorata di riscatto e dignità don Andrea Gallo era lì ad offrire mani e cuore.
Un esempio, non un’omelia. Un partigiano della solidarietà, della giustizia sociale, dei diritti. Limpido erede della Resistenza, del suo appassionato spirito di rivolta e rivoluzione.
Resistenza, che amava nominare in ogni occasione possibile anche ricorrendo ad indimenticabili esibizioni canore: la sua Bella Ciao cantata spesso anche in chiesa. Così fu durante la Prima Festa nazionale dell’ANPI a Casa Cervi dove la sua presenza regalò entusiasmo e una bella allegria.  
La memoria di don Andrea Gallo, del suo impegno, delle sue lotte, non ci abbandonerà. Doverosamente la porteremo nel cuore e nella coscienza. Fino a farla scendere nelle piazze, tra la gente. Con la Costituzione in mano.
Avrebbe certamente voluto così.
Roma, 23 maggio 2013