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sabato 6 maggio 2017

Il Venezuela come il Cile

 
«Mio figlio, Fernando Caballero Galvez, è stato arrestato alle tre del pomeriggio del 6 aprile, e torturato con scariche elettriche. È ancora detenuto con l’accusa di terrorismo, senza essere stato incriminato in tribunale».
Chi fa questa denuncia è il padre di Galvez, Fernando Caballero Arias, che accusa il governo del presidente Maduro di «violare i diritti umani per restare al potere». Lo incontro a una messa per ricordare i caduti delle proteste in Venezuela, organizzata a Las Mercedes dal Foro Penal Venezolano, una ong di avvocati che difendono gratuitamente i detenuti politici. Il foro accusa il regime chavista di torture, e Arias è disposto a metterci la faccia: «Mio figlio ha 29 anni, e frequenta il quinto anno di Economia alla Universidad Central de Venezuela. Il 6 aprile stava partecipando a una marcia, che passava davanti al Centro Comercial El Recreo, quando ha visto una ragazza caduta a terra per i lacrimogeni. Si è fermato ad aiutarla, ed è stato arrestato dalla Guardia Nacional Bolivariana e della polizia». 
Erano le tre del pomeriggio, e da quel momento è cominciato il calvario di Fernando: «Come prima cosa gli hanno rubato tutto, soldi e cellulare. Verso le sette della sera lo hanno portato nella sede del Servicio Bolivariano de Inteligencia Nacional, Sebin, la polizia politica del regime. Lo hanno pestato con i bastoni, frustato con corde bagnate, e poi torturato con le scariche elettriche. Quindi lo hanno incappucciato e rinchiuso in una cella buia di isolamento. Volevano che confessasse di aver commesso reati, e soprattutto di essere stato spinto a farlo dai leader dell’opposizione. Le torture sono continuate fino alle 4 del mattino, quando lo hanno incappucciato di nuovo per portarlo nelle prigioni del Centro de Investigaciones Cientificas Penales y Criminalisticas, dove è ancora detenuto con l’accusa di terrorismo. Il suo caso è stato assegnato al Tribunal 23 de Control de Caracas, ma il giudice incaricato si è ricusato, e quindi è nel limbo. Detenuto, ma senza incriminazione: potrebbe restare così all’infinito. È una situazione angosciante per noi genitori, ma lui non si perde d’animo. Mi ha detto che è determinato a portare il suo caso alle estreme conseguenze». Arias ha deciso di lanciare questa denuncia, con tutti i rischi che comporta, «perché la comunità internazionale deve sapere cosa accade in Venezuela. Una dittatura ha fatto un colpo di stato istituzionale, quando il Tribunale supremo ha esautorato il parlamento, e ora cerca di restare al potere con la repressione». 

Alfredo Romero, direttore esecutivo del Foro Penal, descrive così la situazione: «Nel mese di aprile sono stati fatti 1.668 arresti, e oltre 600 persone sono ancora in carcere senza essere passate in tribunale. Abbiamo ricevuto oltre cento denunce di torture, che ora stiamo investigando: per confermarle in maniera ufficiale richiediamo il certificato del medico forense. Non sarebbe la prima volta, però. Durante la repressione del 2014 ci furono diversi casi, tra cui quello denunciato anche all’Onu di Juan Manuel Carrasco, violentato con una canna di fucile nell’ano». Tra le denunce sotto inchiesta ci sono quella del professore dello stato di Monagas Joel Bellorin, «torturato e poi messo davanti a una telecamera per registrare la confessione. Si è r
ifiutato, e quindi è stato nuovamente brutalizzato. Nello Stato di Merida invece hanno arrestato un quindicenne, di cui non posso fare il nome perché è minorenne, picchiato con i bastoni nello stomaco». 
La repressione sta diventando sempre più brutale: «La Guardia nazionale ormai usa i lacrimogeni per sparare sui dimostranti. Così hanno ucciso Juan Pernalete e ferito Jolita Rodriguez». Le torture più ricorrenti, secondo Romero, sono «le scariche elettriche, le bastonature, le minacce di violenza sessuale, che nel caso delle donne sono costanti». Gli arresti sono diventati selettivi: «Sono andati a prendere a casa un blogger che dava fastidio. Fanno le retate alla fine delle manifestazioni, prendendo anche persone estranee alla protesta, proprio perché sono più impreparate e deboli. Lo scopo è costringerle a confessare, ma soprattutto ad accusare i leader dell’opposizione, così poi vanno ad arrestarli sulla base di queste accuse estorte con la tortura». 
A marzo è stata scoperta anche una fossa comune, nel carcere della Penitenciaria General de Venezuela a San Juan de los Morros: «Non era legata alle proteste, ma dimostra lo stato del sistema. Il governo lascia che le mafie gestiscano le prigioni, e quando si ammazzano tra loro li butta nelle fosse comuni. Speriamo che questi metodi non vengano applicati anche ai detenuti politici». da La Stampa online
 
Ho sempre poco tempo a disposizione ma sfogliando velocemente la pagina online del quotidiano torinese mi sono venuti i brividi a leggere questo articolo. Il Venezuela come il Cile dei desaparecidos di molti anni fa, una dittatura terrificante e barbara che distrusse le vite di tanti giovani uomini e donne che si opponevano al regime militare di allora ed al suo colpo di stato che aveva abolito la democrazia in un paese fino ad allora libero
In Venezuela vivono molti figli nipoti e pronipoti di emigranti italiani che andarono in sud America per trovare un lavoro ed un benessere economico che qui non c'era.
Auguriamoci che la comunità internazionale accolga il messaggio dei venezuelani e cerchi di intervenire per far sì che cessino in fretta le torture e la disperazione dei familiari delle persone ingiustamente imprigionate

mercoledì 7 gennaio 2015

Charlie Hebdo

Oggi era il giorno del rientro a scuola dopo le vacanze natalizie
Una giornata lunga con anche tre ore di lezioni pomeridiane 
Al mio rientro a casa nel tardo pomeriggio ho trovato mia mamma davanti alla TV che seguiva le notizie che arrivavano in diretta dalla Francia 
Notizie agghiaccianti sulla strage fatta in mattinata a Parigi nella sede del giornale satirico Charlie Hebdo
Dodici morti tra cui il direttore del giornale ed altri vignettisti e giornalisti della redazione, due poliziotti  ed il custode del palazzo, ed altri feriti gravi e gravissimi
Immagini terribili di tre uomini in nero con i khalsnikov che hanno ucciso senza pietà
Un attentato alla libertà di parola e al mondo occidentale 
Una follia senza senso come folli sono state tutte le recenti barbare uccisioni in Medio Oriente di giornalisti, fotografi e cooperatori presi prigionieri dall' Isis e da gruppi simili di fanatici intolleranti

JE SUIS CHARLIE 

lunedì 8 dicembre 2014

Petizione per Michael Brown


Pass the Michael Brown, Jr. Law to begin equipping police with body cameras
Michael Brown Sr. and Lesley McSpadden

When our unarmed son Michael Brown, Jr. was killed by a Ferguson police officer, our lives were forever changed. We are devastated and profoundly disappointed that the killer of our child will not face the consequence of his actions. 
Many questions remain about what happened leading up to the moment when our son was shot. But had Officer Darren Wilson been wearing a body camera, which are being worn by more and more police departments around the country, there would be no questions.
President Obama recently announced a plan to provide $263 million in federal funding for body cameras and training for local police departments. And if Congress approves this program, it would provide enough money to buy around 50,000 cameras for police officers. We understand that this plan wouldn't equip all police officers, but it is one proposed solution that can help end police brutality in our communities.
We want to work to make a difference and prevent what happened to Michael from happening to others. We're asking Congress to pass the Michael Brown, Jr. Law by approving this plan.
Police departments are already using on-body cameras with amazing success. In the first year after the Rialto Police Department in California adopted the cameras in 2012, the number of complaints filed against officers fell by 88 percent compared with the last year. More importantly, the use of force by officers fell by almost 60 percent.
This is a plan that we believe is a positive step for our country to begin to heal. It's a common sense measure that will save lives, and protect both civilians and police. Join with us in our campaign to ensure that every police officer working the streets in this country wears a body camera.
Let's come together to help move our country forward. Let's make a difference

Per firmare la petizione andate qui 

Lettera a
U.S. House of Representatives
U.S. Senate

Police brutality is not a Democrat or Republican issue, it’s not ‘black’ or ‘white’ issue, it’s a wrong and right issue. With claims of police brutality and excessive force at an all-time high, we must have the capability to monitor the activity of law enforcement. Equipping police officers with body cameras is a common sense measure that will save lives, and protect both civilians and police. It has been shown that the presence of body cameras on police helps reduce claims of excessive force and brutality, lowering the need for costly litigation. We join with Lesley McSpadden and Michael Brown, Sr. in asking that you pass the Michael Brown, Jr. Law to begin equipping law enforcement with body cameras.

venerdì 14 marzo 2014

No al Segreto di Stato su Ilaria Alpi


"I giornalisti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sono stati uccisi a Mogadiscio il 20 marzo del 1994. Erano in Somalia per indagare su un traffico internazionale di armi e di rifiuti tossici illegali. Ed è per questa ragione che sono stati assassinati. Ma a venti anni di distanza siamo ancora in attesa di conoscere tutta la verità su quella vicenda. 

Questa verità potrebbe essere contenuta nella pila di carta (ottomila documenti) che i servizi di sicurezza militare, l’ex Sismi, oggi Aise hanno accumulato su fatti che attengono all’esecuzione dei due giornalisti.

Carte messe sotto chiave negli archivi della Camera a cui sembra essere stato negato l'accesso dall’Agenzia Aise - come rivela un'inchiesta de "Il Manifesto" firmata dai giornalisti Andrea Palladino e Andrea Tornago - che pare "abbia negato l’autorizzazione a un ufficio di Montecitorio che chiedeva la declassificazione dei documenti riservati acquisiti dalla Commissione parlamentare sui rifiuti presieduta da Gaetano Pecorella".

"E’ fondamentale che queste carte siano rese pubbliche e che ai cittadini sia data la possibilità di sapere" ha affermato sul sito di Articolo21 Domenico D'Amati, legale della famiglia Alpi. "C’è molto da fare e speriamo che tutti gli organi dello Stato collaborino. In primo luogo la Camera dei deputati che deve desecretare questi documenti fondamentali sui traffici dei rifiuti tossici". 

Per questo, facciamo appello al Presidente della Camera Laura Boldrini, di cui conosciamo e apprezziamo la sensibilità umana e civile, affinché si possa consentire l'accesso ai dossier, per squarciare "il muro di gomma" dei poteri che hanno ostacolato la ricerca della verità."

lunedì 27 gennaio 2014

Il Giorno della Memoria

 " Il Giorno della Memoria è stato istituito, dal Parlamento italiano, con la legge n. 211 del 20 luglio 2000 “Istituzione del “Giorno della Memoria” in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti”. 
All’articolo 1 la Legge n. 211 stabilisce che “La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, “Giorno della Memoria” (...)”.
La tragedia della deportazione non finisce, in realtà, con l’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, il 27 gennaio del 1945.
Quando l’esercito sovietico comincia ad avvicinarsi ai campi di sterminio, gli internati superstiti vengono evacuati e costretti a mettersi in cammino verso l’Occidente. Dei 66.000 evacuati da Auschwitz persero la vita circa 15.000 persone. Negli ultimi due mesi di guerra 250.000 prigionieri sono costretti a compiere le marce della morte. La data che segna la definitiva liberazione dei lager è il 5 maggio 1945, quando gli uomini della 11a Divisione corazzata americana del generale Patton liberano Mauthausen.
Primo Levi ricorda che “il sistema concentrazionario nazista rimane un unicum, sia come mole sia come qualità. In nessun altro luogo e tempo si è assistito ad un fenomeno così imprevisto e così complesso: mai tante vite umane sono state spente in così breve tempo, e con una così lucida combinazione di ingegno tecnologico, di fanatismo e di crudeltà”.
Nel Giorno della Memoria, accanto alla Shoah che costituisce la più grande tragedia del Novecento con lo sterminio di sei milioni di ebrei, si ricorda la deportazione da parte dei nazisti che, in Italia, trovano una validissima collaborazione nella Repubblica di Salò, degli oppositori politici e dei lavoratori arrestati a seguito
degli scioperi del marzo 1944. 
Il New York Times e Radio Londra definirono quegli scioperi che videro la partecipazione accanto agli operai delle più importanti fabbriche, dei colletti bianchi, di docenti universitari e di studenti, come “la più grande manifestazione di massa mai effettuata nell’Europa occupata dai nazifascisti”
La repressione nazifascista fu durissima e fu attuata sulla base di precisi elenchi fatti compilare dalle direzioni
aziendali. La deportazione politica ha assunto a Milano e nell’area industriale di Sesto San Giovanni, notevoli dimensioni per la grande e compatta partecipazione dei lavoratori agli scioperi del 1944. 
Quasi tutti gli arresti avvenivano di notte, nelle case, ed erano effettuati dalla Guardia Nazionale Repubblicana, dalla Muti, dall’Ufficio Politico Investigativo. 
Mentre per gli ebrei la destinazione prevalente era il lager di Auschwitz, per gli oppositori politici e i lavoratori la meta obbligata era Mauthausen, con i suoi quarantanove sottocampi. 
Chi arriva a Mauthausen è immediatamente consapevole che in quel campo si è vivi solo e sino a quando si è in grado di lavorare, perché il diritto alla vita esisteva, ma non competeva a chi non era idoneo al lavoro.
Sin dall’stituzione del Giorno della Memoria, il Comitato Permanente Antifascista per la difesa dell’ordine repubblicano, in stretto accordo con la Comunità Ebraica milanese e con la Fondazione Memoria della Deportazione si è fatto promotore di iniziative volte a ricordare le tragedie provocate dall’avvento del nazifascismo in Europa, nella consapevolezza che un Paese senza memoria non può avere alcun futuro. 
 Nelle significative iniziative per il Giorno della Memoria, va sempre tenuto presente il messaggio di coloro che non sono ritornati dalla deportazione: quello di non negare lo sterminio dove è stato praticato, di non banalizzare e non confondere tutto con la sola violenza o la natura malvagia dell’uomo (perché la violenza aveva un solo nome: nazifascismo), di non dimenticare l’organizzazione specifica di un trattamento che programmaticamente annientava con il lavoro e programmaticamente sopprimeva con il gas gli inabili. 
La ricorrenza del Giorno della Memoria ci deve fare riflettere  . 
Fare memoria legandola alla conoscenza storica significa combattere l’oblio che tende a cancellare le differenze, significa far rivivere, nella società contemporanea, che sembra aver perso la propria identità, i valori della pace, della solidarietà, della giustizia sociale, della politica posta al servizio del bene comune che animarono i combattenti per la libertà e coloro che resistettero nei lager nazisti. 
Da quella resistenza all’oppressione è nata quel bellissimo dono che è la Costituzione repubblicana.
Etty Hillesum, un’ebrea olandese morta ad Auschwitz il 30 novembre 1943, così scrive nel suo diario dal campo di concentramento olandese di Westerbork, da dove, ogni lunedì partivano treni con destinazione Auschwitz: “Se noi salveremo i nostri corpi e basta dai campi di prigionia sarà troppo poco. Se non sapremo offrire al mondo impoverito del dopoguerra nient’altro che i nostri corpi salvati a ogni costo – e non un nuovo senso delle cose, attinto dai pozzi più profondi della nostra miseria e disperazione – allora non basterà. Dai campi stessi dovranno irraggiarsi nuovi pensieri, nuove conoscenze dovranno portar chiarezza oltre i recinti di filo spinato”.
Questo è il monito più profondo che  viene dalla tragedia provocata dal nazifascismo e che  deve rendere vigili sui pericoli che le nostre democrazie possono ancora correre per i rigurgiti neofascisti e neonazisti che pervadono l’Europa. 

Il 27 gennaio ricorre  l' anniversario della Liberazione del campo di concentramento di Auschwitz da parte dell’Armata Rossa sovietica, data scelta a livello internazionale quale “Giorno
della Memoria”, in cui ricordare gli oltre 12 milioni di vittime delle deportazioni e dello sterminio nei campi di concentramento nazifascisti.
 Dopo ben 55 anni, in Italia, nel luglio del 2000, il Parlamento giunse all’approvazione della Legge N. 211/2000 che nel primo articolo stabilisce: “La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, “Giorno della Memoria”, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita, hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati”.
Il ricordo delle vittime del razzismo, della deportazione dei Rom, dei diversi e dei non normodotati, finalmente diventa un’indicazione dello Stato. 
Gli italiani deportati furono circa 44.000, di cui 8.600 ebrei, 30.000 partigiani, antifascisti e lavoratori (la maggioranza arrestati e deportati dopo gli scioperi del 1944) e circa 5.000 IMI: il 90% di essi morì nei lager.
Spesso, quando si ricorda la tragedia delle deportazioni italiane, i lavoratori vengono dimenticati o considerati solo marginalmente, mentre essi costituiscono la maggioranza dei deportati italiani. I lavoratori italiani hanno avuto un ruolo fondamentale nella lotta contro il fascismo e la guerra, per riconquistare la libertà e la democrazia.
Due momenti importanti della lotta di Liberazione che videro protagonisti i lavoratori furono gli scioperi del marzo 1943 e 1944. Nel 1943, il 5 marzo, gli scioperi iniziarono a Torino alla Fiat Mirafiori; nei giorni e nelle settimane successive si estesero in Piemonte e poi – a partire dalla Falck – in Lombardia. Gli scioperanti nel 1943 – contro la guerra e il fascismo – furono oltre 150.000 e lavoravano in 217 aziende.
Molti furono gli arresti e le repressioni fasciste. Questa mobilitazione contribuì alla destituzione di Mussolini e alla costituzione del governo Badoglio., a cui seguì,  l’8 settembre ’43, l’Armistizio con gli anglo-americani e l’occupazione nazista del Nord Italia.
I lavoratori svilupparono, sul finire del 1943 e l’inizio del ’44, lotte in varie fabbriche, rivendicando contemporaneamente: fine della guerra, fornitura di alimenti, il diritto al servizio mensa con primo e secondo, adeguamenti salariali, parità donna uomo. 
Le truppe naziste del Comando Militare di Milano – dirette dal generale Zimmermann – entravano nelle fabbriche in sciopero come la Falck di Sesto San Giovanni, la Pirelli Bicocca, la Franco Tosi di Legnano, arrestando e poi deportando decine, centinaia di lavoratori.
Nel marzo  1944, oltre un milione e mezzo di lavoratori del Nord Italia, attuarono lo sciopero generale. La mobilitazione a Milano e a Torino iniziò con lo sciopero dei tranvieri che bloccarono i trasporti per una settimana.
Lo sciopero si estese a tutte le fabbriche, nelle banche; i tipografi e i giornalisti bloccarono la pubblicazione per cinque giorni del Corriere della sera.
Durante gli scioperi i nazisti arrestarono decine di migliaia di lavoratori (operai, impiegati, dirigenti), e li deportarono.
Molti partirono chiusi nei vagoni merci dal “Binario 21” della Stazione Centrale di Milano, sino ai campi di sterminio.
 Sono 553 i lavoratori - di cui 417 operai, 31 manovali, 17 impiegati, 14 tecnici e dirigenti dipendenti della Breda, della Pirelli, della Falck, dell’Ercole Marelli e della Magneti Marelli - deportati e ricordati dal monumento al Parco Nord di Milano.
La fabbrica italiana con il maggior numero di lavoratori deportati è la Breda di Sesto, con 199 deportati, 122 dei quali non hanno fatto ritorno.
Gli scioperi dei lavoratori italiani - unici in Europa durante la guerra - ebbero una ricaduta politica mondiale, come sottolineato dal New York Times del 9 marzo 1944, che tra l’altro scrisse: “Non è mai avvenuto nulla di simile nell’Europa occupata che possa somigliare alla rivolta degli operai italiani disarmati come sono, sanno combattere con coraggio e audacia quando hanno una causa per cui combattere”.
E'  indispensabile informare e formare le nuove generazioni sulla tragedia dei campi di sterminio che ha colpito i diversi, gli ebrei, gli antifascisti, i lavoratori, affinché fascismo e razzismo, vecchio e nuovo, non abbiano più cittadinanza in nessun paese civile.
Tutto ciò è possibile solo se si fanno vivere i valori che portarono i lavoratori alle lotte e al sacrificio della vita; gli stessi valori che sono fissati nella Costituzione repubblicana, che va fatta rispettare e attuare.  

Quando venne istituito il Giorno della Memoria (in Italia nel 2000, dall’ONU nel 2005 e altrove in altre date), si poté legittimamente considerarlo come il punto d’arrivo d’una presa di coscienza comune a buona parte dell’opinione pubblica mondiale, e specialmente di quella europea e occidentale in genere. A più
di 50 anni   dalla fine della guerra si riconosceva la specificità – anche e soprattutto dal lato delle vittime: il popolo ebraico – di quello che Churchill già immediatamente a ridosso dei fatti, ed anzi mentre ancora quasi si svolgevano, aveva definito “probabilmente il più grande e il più orribile crimine mai commesso nell’intera storia del mondo”.
In realtà, si trattava di qualcosa ch’era iniziato davvero qualche decennio prima, quando, almeno a partire dagli anni 70 (ma forse dal 1961, l’anno del processo Eichmann in Israele), il dibattito storiografico, ma anche la riflessione e l’interpretazione, oltreché la rappresentazione attraverso la letteratura, il cinema, ecc., avevano conosciuto un’impennata straordinaria, come se davvero fosse finalmente insorta, dopo lunga maturazione, una nuova consapevolezza, uno sguardo sullo sterminio degli ebrei che riusciva a staccarlo dallo sfondo, a stagliarlo e illuminarlo di luce propria rispetto alle complessive vicende della Seconda Guerra Mondiale.
 Erano stati in particolar modo gli ebrei che non soltanto si erano già dati un loro “Giorno della Memoria” tra il 1953 e il 1959 (Yom ha- Shoah), ma soprattutto avevano già da un pezzo rielaborato in profondità la loro memoria ed anzi il loro vissuto, individuale e collettivo a un tempo, dell’Evento, mentre era la coscienza
pubblica “generale” che era nel frattempo maturata abbastanza da invocare, reclamare quasi, una giornata memoriale che fosse significativa e parlasse a tutti e per tutti, e soprattutto ai giovani delle nuove generazioni. Naturalmente, gli ebrei non potevano che vedere con favore e soddisfazione tutto quel lavorio e tutto quel fervore, che parevano davvero annunciare piena giustizia storica e, per il presente e il futuro, nuova consapevolezza e nuovo rispetto nei loro confronti. Mentre erano da considerarsi fisiologiche e un po’ scontate, almeno finché minoritarie, le voci dissonanti di chi accusava la parte ebraica di: vittimismo esagerato, esclusivismo e magari anche utilizzo improprio della memoria storica per giustificare, per esempio, l’esistenza e tutta l’azione “nel presente” dello Stato d’Israele.
In realtà, al di là del puro ricordare, richiamare alla memoria  “quel ch’è stato”, quali potevano essere le finalità più profonde e radicali nell’istituire una ricorrenza del genere? Il Giorno della Memoria doveva senza dubbio testimoniare del significato universale di quanto accaduto al popolo ebraico (ma anche ad altri,  e soprattutto agli zingari) durante la Seconda Guerra Mondiale e far riflettere, contemporaneamente, sulla
inaggirabile questione del: “perché gli ebrei?”. In effetti, i nazisti tedeschi e i loro complici vollero certo annientare l’uomo che era nell’ebreo, ma forse ancor più l’ebreo che è in ogni uomo, e cioè la forza superbamente umana, e davvero “universale”, della differenza, dell’individualità e della libera identità. Poiché è questa la vera, profonda universalità della condizione ebraica, quella che alla fine provoca nel profondo l’antisemita e il “fascista” di ogni tempo e che spiega, tra l’altro, la radicalità e l’unicità della Shoah.
 Com’è ormai consapevolezza diffusa, una Giornata della Memoria aveva, doveva avere, la funzione primaria di far riflettere la collettività nazionale dei diversi paesi su quelle che erano state anche le proprie responsabilità, traendone il massimo di coscienza storico politica per il presente e per il futuro.
 La memoria non poteva che rimandare continuamente al “sapere” e alla storia ricostruita sempre meglio
e sempre più in profondità. Anche perché soltanto una storia così intesa avrebbe permesso di riconoscere le responsabilità
 Quelle aspettative nei confronti del Giorno della Memoria sono andate, nel tempo, e forse non poteva essere altrimenti, largamente disattese se non francamente deluse. Molti, ebrei e non ebrei, non possono che prendere atto delle derive di una memoria così spesso istituzionalizzata, banalizzata, ritualizzata, rappresentata e celebrata nella pura ripetizione. Dove persino la ricorrente e giusta osservazione che la memoria non possa essere coltivata soltanto un giorno all’anno ma debba esserlo sempre, tutti i giorni dell’anno, è diventata una banale ovvietà, di quelle che rinviano soltanto la risposta che si deve dare a un problema senza averne compreso il significato reale.

Cosa può il Giorno della Memoria di fronte alla crisi del nostro tempo, non solo economico-sociale ma anche etico-politica e dei valori , che non solo conferma la ripetibilità del male – e sia pure non esattamente quel male, per intensità e radicalità, oltreché intenzionalità totale nell’annientamento di un popolo – ma persino una ripetizione puntuale di quel male, o almeno dei suoi presupposti fondamentali, e dunque l’antisemitismo, e il negazionismo, e le mille altre cose orribili che puntualmente rialzano oggi la testa, e con tanto maggior vigore nella società della “comunicazione globale”?
Eppure  la “memoria”, anche quella più ufficiale, mantiene il suo carattere di assoluta necessità,  perché  nella sua realtà storica ma anche nella sua proiezione verso il presente e verso il futuro, è cosa che oltrepassa ogni   possibile strategia esistenziale e anche politica... " 

giovedì 12 dicembre 2013

Il Diario di Malala

«Malala» significa «addolorata». Lo  pseudonimo che Malala Yousafzai aveva scelto per il suo diario era Gul Makai  Ma Malala era anche una guerriera pashtun del XIX secolo, una Giovanna D'Arco afghana che ispirò il popolo a combattere fino alla morte contro britannici e indiani «anziché vivere una vita nella vergogna». Stessi valori ma dedicati a fini diversi dai talebani, in maggioranza di etnia pashtun.

Sabato 3 gennaio: “Ho paura”
Ho fatto un sogno terribile ieri, con gli elicotteri militari e i talebani.  Faccio questi incubi dall’inizio dell’operazione dell’esercito a Swat. Mia madre mi ha preparato la colazione, e sono andata a scuola. Avevo paura di andare perché i talebani hanno emanato un editto che proibisce a tutte le ragazze di frequentare la scuola.
Solo 11 compagne su 27 sono venute in classe. Il numero è diminuito a causa dell’editto dei talebani. Per la stessa ragione, le mie tre amiche sono partite per Peshawar, Lahore e Rawalpindi con le famiglie.
Mentre tornavo a casa, ho sentito un uomo che diceva “Ti ucciderò”. Ho affrettato il passo, guardandomi alle spalle per vedere se mi seguiva. Ma con grande sollievo mi sono resa conto che parlava al cellulare. Minacciava qualcun altro.

Domenica 4 gennaio: “Devo andare a scuola”
Oggi è vacanza, e mi sono svegliata tardi, alle 10 circa. Ho sentito mio padre che parlava di altri tre cadaveri trovati a Green Chowk (al valico). Mi sono sentita male sentendo questa notizia. Prima del lancio dell’operazione militare, andavamo spesso a Marghazar, Fiza Ghat e Kanju per il picnic della domenica. Ma ora la situazione è tale che da un anno e mezzo non facciamo più un picnic.
Andavamo sempre anche a passeggiare dopo cena, ma adesso torniamo a casa prima del tramonto. Oggi ho aiutato un po’ in casa, ho fatto i compiti e ho giocato con mio fratello. Ma il mio cuore batteva forte — perché devo andare a scuola domani.
 
Lunedì 5 gennaio: “Non indossare vestiti colorati”
Mi stavo preparando per la scuola e stavo per indossare la divisa, quando mi sono ricordata di ciò che il preside ci ha detto: “Non indossate le divise, e venite a scuola in abiti normali”. Perciò ho deciso di mettermi il mio vestito rosa preferito. Anche altre ragazze indossavano abiti colorati, per cui c’era un clima molto casalingo in classe.
Una mia amica è venuta a chiedermi: “Dio mio, dimmi la verità, la nostra scuola sarà attaccata dai talebani?”. Durante l’assemblea del mattino, ci è stato detto di non indossare più vestiti colorati, perché i talebani sono contrari.
Dopo pranzo, a casa, ho studiato ancora un po’, e poi la sera ho acceso la tv. Ho sentito che a Shakarda viene rimosso il coprifuoco che era stato imposto 15 giorni fa. Sono contenta perché la nostra insegnante di inglese vive nella zona e adesso forse riuscirà a venire a scuola.
 
Mercoledì 7 gennaio: “Né spari né paura”
Sono stata a Bunair in vacanza per Muharram (una festività musulmana). Adoro Bunair per via delle sue montagne e dei suoi rigogliosi campi verdi. La mia Swat è anch’essa molto bella, ma non c’è pace. Ma a Bunair c’è pace e tranquillità. Non ci sono spari né paura. Siamo molto felici.
Oggi sono stata al mausoleo di Pir Baba e c’era tanta gente, loro erano lì per pregare, noi per un’escursione. C’erano negozi che vendevano bracciali, orecchini e bigiotteria. Ho pensato di comprare qualcosa, ma niente mi ha colpito particolarmente, mentre mia madre ha comprato degli orecchini e dei bracciali.
 
Mercoledì 14 gennaio: “Potrebbe essere l’ultima volta che vado a scuola”
Ero di cattivo umore sulla strada della scuola, perché le vacanze invernali cominciano domani. Il preside ha annunciato quando iniziano le vacanze, ma non ha detto quando la scuola riaprirà. E’ la prima volta che succede.
In passato, la data di riapertura veniva sempre annunciata chiaramente. Il preside non ci ha detto perché non l’abbia fatto, stavolta, ma io credo che  i talebani abbiano annunciato che l’editto contro l’istruzione femminile entrerà in vigore ufficialmente a partire dal 15 gennaio.
Stavolta le ragazze non sono così entusiaste di andare in vacanza, perché sanno che, se i talebani applicano l’editto, non potremo mai più andare a scuola. Alcune compagne erano ottimiste e dicevano che certamente la scuola riaprirà a febbraio, ma altre mi hanno confidato che i genitori hanno deciso di lasciare Swat e di trasferirsi in altre città per il bene della loro istruzione.
Visto che oggi era l’ultimo giorno di scuola, abbiamo deciso di giocare nel cortile un po’ più a lungo. Io credo che la scuola un giorno riaprirà, ma mentre tornavo a casa ho guardato l’edificio pensando che potrei non tornarci mai più.
 
Giovedì 15 gennaio: “Il suono dell’artiglieria riempie la notte”
Il rumore del fuoco dell’artiglieria riempiva la notte, e mi ha svegliata tre volte. Ma dal momento che non c’è scuola, mi sono alzata più tardi, alle 10 del mattino. Poi è venuta a casa la mia amica e abbiamo parlato dei compiti.
Oggi è il 15 gennaio, è l’ultimo giorno prima che entri in vigore l’editto talebano, e la mia amica continuava a parlare dei compiti, come se non stesse accadendo niente al di fuori dell’ordinario.
Oggi ho anche letto il diario che ho scritto per la BBC (in urdu) e che è stato pubblicato sul giornale. A mia madre piace il mio pseudonimo “Gul Makai”, e ha detto a mio padre “perché non cambiamo il suo nome e la chiamiamo Gul Makai?” Anche a me piace perché il mio vero nome vuol dire “addolorata”.
Mio padre dice che alcuni giorni fa qualcuno gli ha mostrato una copia di questo diario dicendo quanto sia fantastico. Papà ha sorriso, ma non poteva nemmeno dire che l’autrice è sua figlia.

Malala Yousafzai

 
  Malala Yousafzai a qattordici anni   sfidò i talebani, che successivamente  le spararono fuori dalla scuola
La giovane studentessa pachistana aveva in precedenza scritto un diario sulla sua vita nella provincia di Swat, al confine con l’Afghanistan,controllata dagli estremisti, ed era diventata un simbolo
In quella zona, dal 2003 al 2009 i talebani avevano preso il controllo   e vietato l’istruzione femminile, distruggendo centinaia di scuole. Nel luglio 2009, dopo furiosi combattimenti, l’esercito li  aveva sconfitti, e da allora il governo aveva incoraggiato i turisti a tornare a visitare quella che, una volta, era una popolare destinazione sciistica. 
Ma il tentativo di uccidere Malala fece capire quanto pericolo ci fosse ancora per le donne e per la loro istruzione
Un uomo barbuto  sparò alla ragazzina all’uscita della scuola, colpendola alla testa 
 Poco dopo arrivò la rivendicazione dei talebani pachistani: "L’abbiamo attaccata perché diffondeva idee laiche fra i giovani e faceva propaganda contro di noi. Oltretutto, considerava Obama il suo idolo».
 Il premier pachistano Raja Pervez Ashraf  mandò un elicottero per trasferire Malala in ospedale. Si infuriarono gli opinionisti pachistani e rimasero sotto choc molti cittadini, nel  Paese che pure è tristemente abituato alla violenza.
Malala   non era una ragazzina qualunque. Era la studentessa più nota del Pakistan   Prima di sparare, pare che l’assalitore avesse chiesto: «Dov’è Malala?». La ragazzina era vista come un pericolo dai talebani  per  la sua età, perché rappresentava le nuove generazioni. Pur non sapendo cosa fare da grande credeva che l’istruzione fosse un suo diritto. Pur non negando di avere paura, la sua voglia di studiare si era rivelata più forte. Mentre a Swat i talebani decapitavano la gente per «comportamenti anti-islamici», lei continuava ad andare a scuola e, nel 2009, a undici anni, aveva scritto un diario online per la Bbc raccontando sotto pseudonimo la sua vita di studentessa.   Era un diario in urdu, stampato anche su un giornale locale, accessibile a chi non sa l’inglese, per dare coraggio ad altre bambine e alle loro famiglie. 
Quando i talebani furono sconfitti a Swat, Malala fece ciò che molti adulti non hanno avuto  il coraggio di fare: li   criticò pubblicamente in tv. Ricevette molte minacce e sperimentato le conseguenze dell'attivismo, ma   difese l'importanza dell'istruzione: «Dateci delle penne oppure i terroristi metteranno in mano alla mia generazione le armi».
Perciò l'attacco contro di lei è stato un avvertimento a tutti coloro che lavorano per le donne e le ragazze. Ed un monito alle famiglie divise tra l'attrattiva delle libertà occidentali e il rispetto delle tradizioni locali. «Dopo l'operazione dell'esercito la situazione è tornata alla normalità - aveva detto Malala -. Speriamo che ricostruiscano le scuole al più presto. Ora tutti sono liberi di studiare e le ragazze non hanno paura dei talebani».

L’invasione dei “Forconi”

I sintomi della rivolta eversiva sono piuttosto evidenti (i blocchi, il tentativo di “fermare” tutto il Paese, i comportamenti e gliatteggiamenti violenti, ecc.) così come è sintomatico il rapido allineamento col movimento, da parte di forze dichiaratamente di destra e alcune, decisamente
fasciste.
Diciamo no ad ogni tipo di violenza diffusa e di sopruso, organizzato, sui diritti altrui; e soprattutto diciamo no a quelle forme di protesta e di “rivolta” che finiscono per avvicinarsi troppo a quel colore nero che non vogliamo più vedere nella nostra Italia e in nessun Paese.
Diciamo sì, invece, a quei governi che finalmente si decidano a mettere in campo tutte le risorse e tutte le misure possibili per risolvere la gravissima situazione economica e sociale in cui versa il Paese
Il movimento dei “forconi” è tornato nelle strade e nelle piazze d’Italia, ancora più deciso edagguerrito. In sé, potrebbe apparire una delle tante manifestazioni di protesta; ma c’è qualcosa di più, su cui occorre riflettere. Da mesi sto scrivendo e dicendo che bisogna fare attenzione e adottare provvedimenti seri contro l’emergenza sociale e la crisi, anche per evitare che la protesta si trasformi in forme esasperate e pericolose. Ed ho scritto più volte che, nelle grandi crisi, c’è sempre il grande pericolo dello sbocco a destra.
Ma la situazione è peggiorata e l’indignazione dei singoli si è trasformata spesso in manifestazioni al limite dell’esasperazione. Finora non è accaduto nulla di veramente preoccupante, anche se chiunque abbia buon senso non può restare indifferente di fronte alla grave situazione del Paese, con tutti gli effetti che ne derivano, per i singoli e per le categoria.
In questo caso, però, sembra che si stia andando ancora più in là; e i sintomi della rivolta eversiva sono piuttosto evidenti (i blocchi, il tentativo di “fermare” tutto il Paese, i comportamenti e gli atteggiamenti violenti, ecc.) così come è sintomatico il rapido allineamento col movimento, da parte di forze dichiaratamente di destra e alcune, decisamente fasciste.
E’ vero che alcuni dei promotori sembrano rifiutare certe logiche e certe alleanze; ma lo stesso proposito di bloccare tutto il Paese per “mandare tutti a casa” costituisce, di per sé, un sintomo davvero allarmante. Tanto più che la violenza, insita in queste forme esasperate di protesta, si manifesta talora in modo inconcepibile, come è avvenuto a Torino ed altrove.
Quando la “protesta” degenera, bisogna porre un limite alla tolleranza; e lo Stato deve garantire, così come la libertà di manifestazione del pensiero, anche la libertà di circolazione.
In più, mi ha molto colpito ciò che è accaduto a Torino, dove – nonostante le smentite ufficiali – giornalisti accreditati confermano che alcuni agenti di polizia avrebbero solidarizzato con i manifestanti, togliendosi l’elmetto. Se ciò fosse vero, il fatto apparirebbe veramente intollerabile, perché il dovere di chi rappresenta lo Stato è di essere giusto e non esercitare violenze preventive, ma anche di non aderire a comportamenti violenti, di vera e propria rivolta. Lo Stato, in qualunque sua componente deve essere imparziale e occuparsi dei diritti di tutti i cittadini, nello stesso modo.
Altrimenti, dove andremmo a finire? Si può, dunque, comprendere tutto, anche l’indignazione e la protesta di chi lotta per il suo lavoro, la sua famiglia, la sua piccola impresa; ma non cessando di garantire la sicurezza, la tranquillità ed i diritti di tutti e non assumendo atteggiamenti benevoli nei confronti di chi sembra rievocare il fantasma dell’Abbasso tutti, di qualunquistica memoria.
Ho visto anche un comunicato stampa del Comitato provinciale dell’ANPI di Torino che, oltre ai blocchi che si sono verificati nei giorni scorsi, denuncia anche carenze e addirittura assenze delle forze dell’ordine.
E’ necessario che anche su questi aspetti e sulle eventuali responsabilità, il Ministero degli interni faccia i necessari accertamenti, anche per evitare che situazioni e fatti del genere, possano ancora verificarsi in futuro.
Insomma e per concludere, diciamo no ad ogni tipo di violenza diffusa e di sopruso, organizzato, sui diritti altrui; e soprattutto diciamo no a quelle forme di protesta e di “rivolta” che finiscono per avvicinarsi troppo a quel colore nero che non vogliamo più vedere nella nostra Italia e in nessun Paese.
Diciamo sì, invece, a quei governi che finalmente si decidano a mettere in campo tutte le risorse e tutte le misure possibili per risolvere la gravissima situazione economica e sociale in cui versa il Paese.

Dalla news-letter dell’ANPI n 100

domenica 5 maggio 2013

Papa Francesco contro la pedofilia del clero


Oggi a Roma pioveva ma Papa Bergoglio ha celebrato la messa come al solito in Piazza San Pietro per i circa 100 mila fedeli presenti e al termine ha girato a lungo sulla papamobile spingendosi fino in via della Conciliazione e scendendo dall'auto per andare tra le persone assiepate per vederlo e toccarlo Oggi però papa Bergoglio ha anche affrontato un argomento molto sgradevole che per anni è stato taciuto dal Vaticano e addirittura protetto, in alcuni casi : la pedofilia dei preti
"Prego per le vittime degli abusi. I bambini vanno difesi", ha scandito il Pontefice. Papa Francesco ha incontrato più volte l'ex pm anti-pedofilia, il vescovo maltese Charles Scicluna , e gli ha chiesto quali misure siano necessarie per rendere ancora più efficace la prevenzione e il contrasto alle violenze compiute dal clero. Secondo quanto si apprende in Curia, Scicluna ha riferito al Papa riguardo agli ostacoli opposti da settori della gerarchia ecclesiastica all'azione di "tolleranza zero" avviata da Benedetto XVI.
Papa Bergoglio, all'inizio del rito, ha lodato i fedeli  per il «coraggio» di voler essere presenti nonostante la pioggia,  ma soprattutto  si è espresso con chiarezza e determinazione contro la pedofilia. «Un saluto speciale va oggi all'Associazione «Meter», nella Giornata dei bambini vittime della violenza. E questo mi offre l'occasione per rivolgere il mio pensiero a quanti hanno sofferto e soffrono a causa di abusi», ha detto  al termine della messa  «Vorrei assicurare loro che sono presenti nella mia preghiera, ma vorrei anche dire con forza  che tutti dobbiamo impegnarci con chiarezza e coraggio affinché ogni persona umana, specialmente i bambini, che sono tra le categorie più vulnerabili, sia sempre difesa e tutelata».
  Papa Francesco ha raccomandato in particolar modo che « la Congregazione per la Dottrina della Fede, continuando nella linea voluta da Benedetto XVI, agisca con decisione per quanto riguarda i casi di abusi sessuali, promuovendo anzitutto le misure di protezione dei minori, l'aiuto di quanti in passato abbiano sofferto tali violenze, i procedimenti dovuti nei confronti dei colpevoli, l'impegno delle conferenze episcopali nella formulazione e attuazione delle direttive necessarie in questo campo tanto importante per la testimonianza della Chiesa e la sua credibilità».
 «Il Santo Padre - si legge in una nota ufficiale - ha assicurato che nella sua attenzione e nella sua preghiera per i sofferenti le vittime di abusi sono presenti in modo particolare».
 Negli otto anni di Pontificato Benedetto XVI ha emanato norme più severe e allontanato una ottantina di vescovi che non avevano saputo rispondere adeguatamente agli abusi compiuti dai loro preti, incontrando le vittime di questi orrendi crimini in Vaticano, negli Stati Uniti, in Australia, a Malta, in Gran Bretagna e in Germania, ma il problema resta e deve essere risolto con fermezza Un grazie a Papa Francesco per la sua sensibilità e la sua onestà ma anche per il suo decisionismo che vuole fare pulizia in un mondo clericale a volte ben poco trasparente

mercoledì 1 maggio 2013

Guantanamo

Ieri il Presidente Usa Obama, in una conferenza stampa, ha dichiarato, riferendosi  allo sciopero della fame a Guantanamo da parte dei sospetti terroristi che vi sono detenuti, «Non voglio che muoiano, il Pentagono sta facendo al meglio ciò che può», precisando però che «a mio avviso Guantanamo doveva essere chiuso da tempo e dovrebbe esserlo ora». Se ciò non avviene « la responsabilità è del Congresso» ha aggiunto, contestando l’idea che i terroristi più pericolosi non possano essere detenuti sul suolo americano: «In molti casi lo stiamo già facendo  »
La Baia di Guantánamo, chiamata dagli Inglesi Cumberland nel XVIII secolo , è un'insenatura di 116 km² situata nella punta sud-est dell'isola di Cuba, a oltre 21 km a sud della città di Guantánamo.
È nota soprattutto per la presenza dell'omonima base navale statunitense e del relativo campo di prigionia.
La baia prese il nome dal popolo indigeno precolombiano dei Taìno. Cristoforo Colombo giunse nella baia nel 1494, sbarcando alla Punta del Pescatore.
Occupata dai britannici nel XVIII secolo, fu da questi rinominata Cumberland durante il conflitto con la Spagna, a margine della guerra di successione austriaca. Nel 1790 un'intera guarnigione britannica vi fu decimata da febbri malariche poco prima di condurre un attacco a Santiago.
Durante la guerra ispano-americana, Guantánamo divenne una base per la flotta statunitense che vi trovò riparo nel 1898 a causa di una stagione dalle   condizioni meteorologiche pessime. Le truppe imbarcate furono inviate a terra per espugnare, insieme agli scout cubani, le postazioni spagnole. Ottenuto il controllo dell'area, fu costruita la base, ancora in funzione 
Finita la guerra, gli Stati Uniti, che avevano conquistato tutta l'isola cubana sottraendola alla Spagna, siglarono con la neonata repubblica, a capo della quale vi  era il primo presidente Tomás Estrada Palma, cittadino americano, il Cuban-American Treaty del 23 febbraio 1903, che stabiliva una concessione perpetua sulla baia, che sarebbe rimasta di demanio cubano, ma assegnata in gestione  agli stranieri. Si arrivò alla completezza e al diritto americano perenne con un accordo di ratifica   nel 1934.
 Il territorio della baia venne affittato nel 1903 come punto di rifornimento per il carbone che alimentava le navi americane ed attualmente ospita la base navale degli Stati Uniti. La legittimità della presenza della base militare è contestata dal governo cubano che considera la baia come un'area occupata da forze straniere. Ha un'estensione di circa 111 km², oltre l'Isola Navassa, 5 km².
Il campo di prigionia di Guantánamo è una struttura detentiva statunitense di massima sicurezza interna alla base navale di Guantanamo, 
L'area di detenzione è composta da tre campi: il "Camp Delta" che include il "Camp Echo", il "Camp Iguana", e il "Camp X-Ray", ormai chiuso. Dall'11 gennaio 2002, il governo degli Stati Uniti, sotto l'amministrazione Bush, ha aperto un campo di prigionia all'interno della base, finalizzato alla detenzione di prigionieri catturati in Afghanistan e ritenuti collegati ad attività terroristiche
In merito alle modalità di funzionamento della parte carceraria della base, si levarono subito polemiche sulle condizioni di reclusione e l'effettivo status giuridico-fattuale dei reclusi. Da parte di osservatori si sostenne che i reclusi non sarebbero stati classificati dal governo USA come prigionieri di guerra, né come imputati di reati ordinari, che avrebbero potuto garantire loro processi e garanzie ordinarie, ma che  sarebbero stati invece considerati come detenuti  senza dichiarato titolo.
Il dipartimento della Difesa degli Stati Uniti diffuse alcune fotografie dei detenuti nella base militare. L'allora Segretario della difesa Donald Rumsfeld dichiarò che questi prigionieri sarebbero stati "combattenti irregolari" cui non si applicava "nessuno dei diritti della Convenzione di Ginevra". Essi  non sarebbero stati considerati come prigionieri di guerra, perché non lo erano, come precisò
Nel gennaio 2002 l'Alto Commissario per i Diritti dell'Uomo dell'ONU, Mary Robinson,  protestò contro le condizioni di detenzione dei prigionieri. L'ex-presidente della Repubblica d'Irlanda  insistette sugli "obblighi internazionali, che andavano rispettati". Rispondendo il 21 gennaio alle critiche mosse, Rumsfeld   affermò che sarebbe stato conforme "nelle parti essenziali" alla Convenzione di Ginevra.
Il 29 giugno 2006, in occasione dell'appello di un detenuto, Salim Ahmed Hamdan, una sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti stabilì la violazione della Convenzione di Ginevra e del Codice di Giustizia Militare statunitense , dovuta alle modalità di detenzione dei prigionieri all'interno della base di Guantánamo ed ai tribunali militari speciali istituiti per giudicarne i detenuti.
La legislazione approvata a dicembre 2005, legge sul trattamento dei detenuti, aveva infatti  revocato il diritto dei detenuti di Guantánamo di presentare istanze di habeas corpus presso corti federali statunitensi contro la loro detenzione o trattamento, permettendo soltanto limitati appelli contro le decisioni dei Tribunali di revisione dello status di "combattente" e delle commissioni militari. Era così stato messo in discussione il futuro di circa 200 casi in corso in cui i detenuti avevano presentato ricorso contro la loro detenzione in seguito a una sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti del 2004, che aveva decretato il loro diritto a presentare tali ricorsi.
Amnesty International, nel rapporto 2006, ha riportato che i Tribunali di revisione dello status di combattente (CSRT), istituiti dal governo nel 2004, hanno reso noto, nel marzo 2004, che il 93% dei 554 detenuti esaminati erano da considerarsi a tutti gli effetti “combattenti nemici”. I detenuti non avevano un rappresentante legale e molti di loro avevano rinunciato a partecipare alle udienze dei CSRT, che potevano avvalersi di prove segrete e di testimonianze estorte sotto tortura.
Nell'agosto 2005, un imprecisato numero di reclusi  aveva ripreso lo sciopero della fame già iniziato a giugno per protestare contro la perdurante mancanza di accesso a una corte indipendente e contro le dure condizioni di detenzione, che sarebbero state caratterizzate anche da violenze e pestaggi. Più di 200 detenuti, cifra contestata dal Dipartimento della Difesa, avrebbero partecipato almeno a una fase della protesta. Diversi detenuti denunciarono di essere stati vittime di aggressioni fisiche e verbali e che venivano alimentati a forza: alcuni avevano riportato lesioni causate dall'inserimento brutale di cannule e tubi nel naso. Il governo negò qualsiasi maltrattamento. A fine anno lo sciopero della fame era ancora in corso.
Nel novembre 2005 tre esperti in diritti umani delle Nazioni Unite declinarono l'offerta di visitare la base di Guantánamo, presentata dal governo degli Stati Uniti, poiché quest’ultimo aveva posto restrizioni contrastanti con quanto normalmente stabilito dagli standard internazionali sulle ispezioni di questo tipo.
Per quanto sia scandalosa questa prigione, alcuni detenuti  l' hanno preferita a quelle dei loro paesi. Due ex-detenuti tunisini hanno chiesto aiuto a Human Rights Watch per le torture ricevute in patria. Un prigioniero algerino ha fatto ricorso alla Corte Suprema degli Stati Uniti invocando il suo diritto a non essere scarcerato, temendo torture nel suo paese d'origine.
Nel dicembre 2008 iniziò a essere affrontato il problema della chiusura della prigione, dopo che il neoeletto presidente Barack Obama   manifestò l'intenzione di porvi rimedio.  Il 21 gennaio 2009 il presidente statunitense firmò l'ordine di chiusura del carcere, ma non della base militare, che doveva essere smantellato entro l'anno. Purtroppo  ciò non è ancora avvenuto anche a seguito del voto contrario del Senato degli Stati Uniti, il quale con 80 voti sfavorevoli e 6 favorevoli ha respinto il piano di chiusura, il quale prevedeva un costo di circa 80 milioni di dollari.

lunedì 22 aprile 2013

Boston e l'FBI

Dopo cinque giorni dall'attentato avvenuto a Boston, Massachusetts, al termine della celebre maratona annuale, che ha provocato la morte di tre persone giovani, uno dei quali era un bimbo di otto anni, e  180 feriti, numerosi gravi o molto gravi per le amputazioni subite, l'FBI ha ucciso uno dei due attentatori e arrestato l'altro dopo 24 ore di una incredibile caccia all'uomo, che ha impedito alla popolazione del luogo di uscire da casa e di usare i cellulari, per evitare ulteriori esplosioni di eventuali ordigni
" Ferito nello scontro in cui era morto il fratello Tamerlan , Dzhokhar Tsarnaev si era rifugiato in una barca custodita nel retro di una casa a Watertown . Dzhokhar  si è arreso all’Fbi ed ora dovrà rispondere alla giustizia per l’attentato compiuto contro la maratona di Boston . A tarda notte è stato Barack Obama a parlare dalla Casa Bianca per lodare la capacità di dimostrata da Boston e dal Massachusetts di reagire all’attentato. “Ci sono molte domande che restano senza risposta - ha però aggiunto il presidente - perché chi è cresciuto nella nostra nazione ricorre a tale violenza? Come hanno pianificato e realizzato l’attacco? Hanno ricevuto degli aiuti?”. Sono i quesiti che, appena possibile, l’Fbi porrà al ceceno catturato. “Comprenderemo cosa avvenuto e indagheremo su ogni legame con questi terroristi” promette il presidente "
" Per l’intelligence americana, però, l’attacco alla maratona rappresenta un flop non lontano da quello dell’11 settembre. Soprattutto per l’Fbi, che due anni fa aveva interrogato Tamerlan, fratello maggiore e probabile ispiratore dell’attentato.Il Federal Bureau of Investigation  ha avuto tra le mani il capo del complotto e non ha capito che rappresentava una minaccia. l’Fbi  ha pubblicato un comunicato: «All’inizio del 2011 un governo straniero ci ha chiesto informazioni su Tamerlan Tsarnaev. La domanda era basata su informazioni secondo cui era un seguace dell’islam radicale e un forte credente. Era cambiato drasticamente nel 2010 e si preparava a lasciare gli Usa, per andare nel paese in questione a unirsi a gruppi clandestini non specificati. In risposta alla richiesta, l’Fbi ha controllato tutti i database, le informazioni, le comunicazioni, e l’uso di siti associati alla promozione di attività radicali. Il Bureau ha anche interrogato Tamerlan Tsarnaev e i suoi famigliari, ma non ha trovato alcuna attività terroristica». Il governo coinvolto era quello russo, preoccupato che il giovane volesse tornare in Dagestan per legarsi agli estremisti islamici ceceni.  "
Notizia molto interessante letta sul Quotidiano La Stampa di Torino E' curioso che l' FBI, come la CIA, super tecnologico e potentissimo servizio di polizia americana sia riuscito una volta ancora a non capire nulla e a lasciare libero l'ennesimo folle fanatico ed i suoi complici ...
Questa incapacità mi ricorda molto, purtroppo, i tristi tempi in cui in Italia gli attentati erano un problema serio e comune : mafia, brigatisti rossi o neri, e sconosciuti assassini  si potevano tranquillamente permettere di far saltare treni, stazioni, musei, banche o aerei senza che i servizi segreti non  riuscissero mai una volta a scoprirli prima delle stragi ... Ancora oggi c'è il segreto di stato e tanti di loro non sono mai stati scoperti e puniti !!!

domenica 17 marzo 2013

Papa Francesco e Pietro Orlandi

Sono solo quattro giorni che il cardinale Jorge Mario Bergoglio è diventato sua Santità papa Francesco ma è già riuscito a sconvolgere completamente il Vaticano, e non solo per la semplicità e la spontaneità con cui si rivolge agli altri
Ieri ha incontrato la stampa internazionale ed è riuscito ad essere simpatico persino parlando con i giornalisti. Bellissima la foto che lo ritrae con uno di loro, non vedente, e con il suo cane guida, che accarezza gentilmente
Stamattina invece ho seguito la diretta su RaiNews24 dalla chiesa di Sant'Anna in Vaticano, dove al termine della messa papa Bergoglio ha salutato ad uno ad uno i fedeli, ha stretto loro le mani,  ha  conversato e li ha esortati a pregare per lui. Ha anche accarezzato i bambini e si è dimostrato molto comunicativo  con la folla che lo aspettava dietro alle transenne
Papa Francesco ha abbracciato anche Pietro Orlandi, il fratello di Emanuela Orlandi, .con cui c’è stato uno scambio di battute 
 
La madre della ragazza scomparsa 30 anni fa abita in Vaticano ed è parrocchiana di Sant’Anna. Nella cripta della chiesa è sepolto il padre di Emanuela, il messo pontificio Ercole. I familiari hanno riposto nel nuovo Pontefice le speranze di avere un aiuto nella soluzione del loro caso. 
 Il 24 febbraio, alla vigilia dell’ultimo Angelus di Benedetto XVI,  tre persone sono state sentite dal procuratore aggiunto di Roma Giancarlo Capaldo, tra cui un ex allievo della scuola di musica frequentata dalla ragazza.
 Potrebbe esserci finalmente una possibile novità nell’indagine sulla figlia del commesso della Prefettura Pontificia sparita il 23 giugno  1983, quasi sicuramente rapita, e mai più ricomparsa. L’inchiesta era  ripartita negli ultimi mesi con  l’apertura della tomba nella Basilica di Sant’Apollinare del defunto boss della Banda della Magliana Enrico “Renatino” De Pedis, che secondo la testimonianza di persone a lui allora molto vicine sarebbe stato coinvolto nel sequestro.
 I resti del criminale sono stati traslati e dall’estate scorsa si stanno svolgendo al Laboratorio di antropologia e odontologia forense  di Milano lunghe e approfondite analisi su delle ossa sconosciute ritrovate nella cripta. I risultati dovrebbero arrivare tra due mesi perchè  l’anatomopatologa Cristina Cattaneo ha  chiesto ancora altro tempo ai pubblici ministeri romani.
Dall’ottobre 2012 il fratello di Emanuela Orlandi, Pietro, ha fatto una petizione, che ha superato ormai le 100mila firme,  da inviare al segretario di Stato vaticano, cardinale Tarcisio Bertone, per chiedere che si faccia luce sulla scomparsa della sorella.
Secondo Pietro, infatti, in Vaticano c’è chi conosce la verità.
Speriamo che Pietro, spesso ospite della trasmissione di Rai3 Chi l'ha visto?, possa avere un aiuto concreto dal nuovo papa e che si possa far luce su una delle pagine più misteriose della recente storia vaticana. 

sabato 1 dicembre 2012

43 anni fa la strage di Piazza Fontana

43° anniversario della strage di Piazza Fontana 12 Dicembre 1969 – 12 dicembre 2012
  12 dicembre 2012   piazza Fontana  Milano
Ore 16,30 appuntamento con i Gonfaloni dei Comuni, e le bandiere delle Associazioni Partigiane.
Ore 16,37 deposizione delle corone alla presenza delle Autorità;
Ore 17,00 proiezione di un documentario sulla strategia della tensione
Ore 17,30 interventi di: Carlo Arnoldi, Pres. Associazione Vittime di Piazza Fontana; Onorio Rosati, Segretario Gen.le Camera del Lavoro di Milano; Prof. Carlo Smuraglia, Presidente nazionale dell’ANPI    Presenta: Roberto Cenati Presidente ANPI Provinciale di Milano
 sala Orlando del Palazzo Castiglioni dell’Unione Commercianti Corso Venezia 47
ore 19,30   concerto dedicato al 43° anniversario della strage di Piazza Fontana
 ingresso libero fino ad esaurimento posti. 
   13 dicembre 2012 ore 20,30 Teatro dell’Arte viale Alemagna 6 - Milano
 Spettacolo teatrale SEGRETO DI STATO di Silvio Da Rù e Fortunato Zinni ,  liberamente tratto dal libro “Piazza Fontana: nessuno è Stato” di Fortunato Zinni regia Silvio Da Rù

Il 12 dicembre 1969 una bomba ad alto potenziale esplose nella Banca Nazionale dell'Agricoltura di Milano provocando 17 morti e 84 feriti.
    L'attentato, di chiara matrice neofascista, ful'inizio della strategia della tensione e il preludio a quella terribile stagione del terrorismo e dell'eversione in Italia. Nonostante i numerosi processi e le diverse sentenze, nonostantesiano stati chiaramente individuati i colpevoli,  per questa strage nessu-no ha pagato.
A 43 anni da quel vile gesto, il Comitato Permanente Antifascista contro il terrorismo e per la difesa dell'ordine repubblicano, d'intesa con i Familiari delle Vittime, promuoverà una serie di iniziative " non solo per rendere il doveroso tributo di memoria ai caduti, ai feriti ed ai familiari, ma anche per riflettere su una vicenda che presenta ancora troppi lati oscuri, anche per ciò che attiene al ruolo svolto da apparati deviati dello Stato".
Dopo tanti anni è fondamentale avere verità e giustizia, è necessario che si aprano tutti gli armadi e si svelino tutti i segreti,  per far sì che queste tragiche vicende non possano verificarsi mai più.
Avevo 14 anni quando ci fu l'attentato e stavo frequentando il primo anno delle Superiori
 Restai sconvolta ed attonita da tanta violenza che non riuscivo a capire
Perchè far saltare una banca e uccidere cittadini inermi?
Purtroppo negli anni successivi tale violenza si allargò come una macchia d'olio fino a sfociare negli ultimi anni 70 in quegli eccessi brigatisti che versarono il sangue di tante persone inutilmente, per una causa forse inizialmente anche buona, ma diventata inconcepibile e assurda per le scelte fatte ed i modi orribili in cui fu portata avanti, con omicidi e morti e rapimenti ed uccisioni continue . Ricordo gli anni passati all'Università a Torino e le morti di poliziotti giornalisti e giovani che avevano la sola colpa di voler essere dalla parte dello Stato e dei cittadini onesti  o che si erano trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato
Loro hanno dato la vita per una democrazia libera e giusta
E' giusto ricordare quelle vittime  per non dimenticare
Ma è necessario che lo Stato non dimentichi e non nasconda e tolga una volta per tutte quel maledetto segreto di Stato, che non fa di certo onore e giustizia ad un paese democratico e alle vittime di un buio periodo di attentati, stragi e omicidi di Stato !!!

 

martedì 23 ottobre 2012

Sant'Anna di Stazzema - Lettera aperta

La procura di Stoccarda ha invalidato la sentenza della giustizia militare italiana di La Spezia, che aveva  condannato  all'ergastolo 10 assassini SS colpevoli del massacro di S.Anna di Stazzema, dove vennero uccise 560 persone il  12 agosto 1944, durante la seconda guerra mondiale
Nel comunicato stampa della procura di Stoccarda, che ha deciso di non procedere con la richiesta di imputazione, si legge che « dalle indagini, condotte in maniera ampia ed estremamente approfondita insieme all'ufficio criminale del Baden-Wuertemberg, è emerso che non è possibile dimostrare una partecipazione dei 17 indiziati - in particolare degli otto ancora in vita - agli avvenimenti del 12 agosto 1944 nel paese di S. Anna di Stazzema punibile con una pena che non sarebbe prescritta».
Per i procuratori tedeschi decisiva  è stata l'impossibilità di dimostrare che il massacro di 560 persone, tra cui «almeno 107 bambini», compiuto dai 17 militari della divisione di granatieri corazzati "Reichsfuehrer Ss" sia stato programmato sin dall'inizio come «un'azione di sterminio contro la popolazione civile». 
 Il sindaco di Stazzema ha detto : «In questo caso si disconosce anche il lavoro di un tribunale militare italiano che nel corso degli anni ha svolto un lavoro importante su quanto accaduto . Quello che mi lascia interdetto è che tra i gerarchi delle ex SS tedesche c'è anche un reo confesso che ha dichiarato che ha considerato donne e bambini, come fossero alla pari degli adulti e che si è reso responsabile di questo crimine di guerra. Sono stati discolpati i soldati, ma gli ufficiali e i sottufficiali sono ritenuti responsabili di quanto accaduto quel lontano agosto. È una notizia che ci ha profondamente offesi e addolorati».
 
Ed ecco la lettera aperta che gli Italiani residenti in Germania hanno inviato alle autorità tedesche ed italiane  per esprimere il loro dissensoe la loro rabbia contro questa vergognosa sentenza della procura di Stoccarda
 
Lettera aperta degli italiani in Germania
alle loro eccellenze
Joachim Gauck, Presidente della Repubblica Federale di Germania
Giorgio Napolitano, Presidente della Repubblica Italiana
Angela Merkel, Cancelliere della Repubblica Federale di Germania
Mario Monti, Presidente del Consiglio dei Ministri Italiano
Martin Schulz, Presidente del Parlamento Europeo
 
Gli Italiani che vivono in Germania sono costernati dall'archiviazione da parte della Procura di Stoccarda del fascicolo riguardante la strage di Sant'Anna di Stazzema —al termine di una inchiesta fatta durare dieci anni— con motivazioni scandalosamente in contrasto con la realtà dei fatti ed argomenti pseudo-storici.
Noi non entriamo in questioni legali, dato che con la sua decisione il ben noto Procuratore generale Bernhard Häußler, ha fatto diventare una questione legale un grave fatto politico.
Dunque chiediamo che il problema venga risolto al più presto possibile con la rimozione di Bernhard Häußler e dando al procedimento la conclusione naturale in tempi brevi.
Con tutto il rispetto della magistratura tedesca, anche sorvolando sul dato di fatto storico che dopo la seconda guerra mondiale nel territorio della Repubblica Federale i peggiori assassini nazisti che ricoprivano cariche nella magistratura non furono rimossi e continuarono tranquillamente la loro opera di avvelenamento della società tedesca, un Procuratore come Bernhard Häußler non può mettersi al disopra del Parlamento Federale, il quale il 15 maggio 1997 con un proprio ordine del giorno ha stabilito: "Der Zweite Weltkrieg war ein Angriffs- und Vernichtungskrieg, ein vom nationalsozialistischen Deutschland verschuldetes Verbrechen". (La seconda guerra mondiale fu un atto di aggressione e guerra di sterminio, un crimine perpetrato dalla Germania nazista)
A questo si aggiunge il fatto che la banda degli assassini di Sant'Anna di Stazzema era la 16. SS-Panzergrenadier-Division Reichsführer SS, che non era composta da "normali soldati", ma da appartenenti ad una milizia di partito, tutti volontari, criminali da capo a piedi, già in virtù dell'appartenenza a tale banda.
Qui sta il vero problema: in Germania da decenni si fa tanta "Aufarbeitung" (analisi storica), ma nessuna "Abrechnung" (resa dei conti). Da quando la Germania ha perso la seconda Guerra mondiale, per quaranta anni la Repubblica Federale Tedesca non è riuscita o non ha voluto liberarsi della teppaglia nazista; con l'unificazione qualcuno sperava probabilmente che non se ne parlasse più. Ma sono troppe le vittime lasciate sul suolo di tutta l'Europa per poter fare finta di niente.

Qui nessuno vuole dare la colpa a chi "ha avuta la grazia della nascita ritardata", come disse una volta Helmut Kohl, ma una responsabilità comunque rimane loro, cioè quella di dover fare i conti con la storia, eliminare le tossine ed i veleni nazisti che ancora circolano nella società tedesca ed evitare che le follie barbariche del passato si possano ripetere.
Il mancato riconoscimento di cosa fu veramente il nazismo da gran parte della Germania, rappresenta un enorme ostacolo sul cammino dell'Unione Europea, unico orizzonte che potrà ridare al nostro continente un futuro possibile di pace e giustizia sociale.

Noi in nessun modo intendiamo fare di ogni erba un fascio, non vivremmo per nostra libera scelta in Germania. Non dimentichiamo neanche il fatto che durante la seconda guerra mondiale migliaia e migliaia di veri soldati tedeschi ebbero il coraggio di fare la scelta giusta, voltando le spalle ad ufficiali in grado di dare solamente ordini folli, non solo arrendendosi agli alleati, ma addirittura collaborando in vari modi con la Resistenza italiana, mostrando di essere veri precursori di una Germania europea, amante della Giustizia e della libertà. Molti di loro furono massacrati al pari e spesso insieme a vittime italiane, facendo onore alla Germania. Quelli che sopravvissero nella Repubblica Federale furono perseguiti ed umiliati da funzionari pubblici e politici dal solido passato nazista.
Cogliamo ancora questa occasione per ribadire che anche in Italia persistono alcune ombre lunghe del passato fascista e dunque non possiamo che tendere la nostra mano amichevole a tutti quei tedeschi che si battono per chiudere definitivamente con il passato nazista ed i suoi eccessi barbarici.

mercoledì 10 ottobre 2012

Chi si salva ?

Terremoto al Pirellone, in manette Zambetti  I pm: «Ha comprato 4 mila voti dalle cosche»
Bocassini: «Questa democrazia è inquinata»
Inchiesta sui rimborsi: tre consiglieri indagati 
Diciotto persone in carcere, altre due ai domiciliari.
«Aiuto dei clan anche alla consigliera Sara Giudice, “l’anti-Minetti”». E il Carroccio scarica il presidente
 
Lazio, l’inchiesta si allarga
Indagato il capogruppo Idv
“Si è intascato 700 mila euro”  Il consigliere regionale Maruccio sotto inchiesta per peculato, stesso reato di Fiorito, si è dimesso dall’incarico. Finanza nei suoi uffici.

 Queste sono  due  articoli de La Stampa online che domani leggerò più ampiamente sul quotidiano cartaceo
Sono settimane che  giorno dopo giorno veniamo a conoscenza dei furti e delle malefatte di questi cosidetti uomini politici che hanno avuto la faccia tosta di impossessarsi di migliaia o milioni di euro, sperperandoli in viaggi feste case e gozzoviglie, ed hanno anche,troppo  spesso, il coraggio di ritenersi innocenti
La democrazia non è solo inquinata, la democrazie è profondamente malata e non ci resta che piangere
Per noi che paghiamo le tasse , in eccesso, che viviamo onestamente e faticosamente
Per noi che ne abbiamo abbastanza di questi politicanti privi di scrupoli e di senso morale ed etico
E' vergognoso ed ignobile dover continuare a subire queste persone che altrove sarebbero messe in prigione e lasciate a lungo per le loro colpe e per le loro truffe e reati vari
Ma purtroppo ogni giorno di più il marcio viene a galla e sono coinvolti tutti i partiti
Finirà mai ? Si vergogneranno mai ? Riusciranno mai a capire l'indignazione di chi vive onestamente con paghe sempre più misere, tirando la cinghia, facendo sacrifici e rinunce ?
Se penso a tutte le persone che sono disoccupate o che rischiano il posto di lavoro mi viene la nausea quando leggo gli articoli, pagine e pagine, dedicati ai vari Fiorito Lusi ecc ecc di turno ...

domenica 20 maggio 2012

Melissa e le sue compagne

" Melissa Bassi aveva 16 anni ed era di Mesagne  Ieri mattina, alle sette e cinquanta, si è trovata vicino alle tre bombole di gas, tenute insieme da un innesco comune,  proprio nel momento in cui sono esplose squarciando l’aria del polo scolastico di Brindisi, nascoste da mani assassine dietro ad  un cartellone pubblicitario poco lontano dall’istituto per i servizi sociali, la moda e il turismo Francesca Laura Morvillo-Falcone. Tre esplosioni a distanza brevissima l’una dall’altra che hanno lasciato sulla strada otto ragazze, tutte  appena scese dal pullman di linea che ogni mattina le portava a scuola dai paesi della provincia verso gli istituti di via Aldo Moro e dintorni. Melissa muore pochi minuti dopo al pronto soccorso dell’ospedale Perrino di Brindisi.Veronica Capodieci, di 15 anni, che è poco lontano da Melissa, viene colpita in pieno anche lei ma  si spera che possa salvarsi. Meno grave è sua sorella Vanessa, di 19 anni. Le due ragazze sono figlie di un imprenditore che alcuni anni fa ha collaborato con l’associazione Libera lavorando ad uno scavo su un terreno sequestrato ad un boss della Sacra Corona Unita. 
Azzurra Camarda, di 17 anni, e Sabrina Ribezzi, di 18 anni, sono state ricoverate al centro grandi ustionati del Perrino dove i medici non sciolgono la prognosi perché sono preoccupati dalle infezioni che potrebbero aggravare il quadro clinico.Sono rimaste ferite anche le studentesse  Anna Lopertuso, di 20 anni, Selene Greco, di 16 anni e Alessandra Gigliola, di 20 anni. 
 Gli inquirenti hanno cominciato a visionare i video di sorveglianza intorno alla scuola. In uno in particolare ci sarebbero elementi giudicati «molto utili» per identificare gli autori dell’attentato. Nella notte, poi, gli investigatori hanno lungamente ascoltato in Questura un ex militare esperto di esplosivi ed elettronica e i suoi familiari avrebbero una rivendita di bombole di gas. Non è trapelato, però, nulla sulla sua posizione...
L’attentato davanti alla scuola potrebbe essere stata la risposta ad un’operazione di polizia chiamata «Die Hard» che il 9 maggio ha portato in carcere 16 esponenti della mafia locale. L’aria a Mesagne e dintorni era pesante già da una decina di giorni. Da quando ignoti hanno incendiato l’auto di Fabio Marini, il presidente dell’associazione antiracket di Mesagne. Resta il dolore. Tre giorni di lutto cittadino voluti dal nuovo sindaco Mimmo Consales."

  «Mi diceva sempre che voleva fare l’Università»...«era così solare... stamattina mi ha avvertito un amico, ho provato a chiamarla, ma non mi rispondeva più...» Queste parole commoventi e strazianti di Mario, il ragazzo di Melissa,  racchiudono tutto il dramma della tragedia di ieri mattina a Brindisi. Un attentato assurdo ed inconcepibile, una strage che ha colpito delle ragazze giovanissime che stavano andando a scuola
 «Hanno colpito il simbolo dell’innocenza, della voglia di progresso, un presidio della legalità», ha detto, con gli occhi umid,i il sindaco di Mesagne
Oggi da Mesagne partirà la Carovana della Legalità di Libera e Don Ciotti . Che la paura e l'omertà vengano sconfitte e che tutti coloro che sanno, parlino I colpevoli devono essere presi e condannati perchè la loro follia ha ucciso e ferito delle giovani innocenti, la parte bella ed intelligente della gioventù, che sognava di studiare, di frequentare l'università, di svolgere un lavoro serio, onesto ed importante...
Di loro sono rimasti gli zaini, i libri ed i quaderni a svolazzare in terra, abbandonati, a pochi passi dalla loro scuola dove ogni giorno andavano sorridenti e felici

venerdì 18 maggio 2012

Il processo a Ratko Mladic

 La corte dell’Aja per i crimini contro l'umanità che avrebbe dovuto giudicare Ratko Mladic, il boia di Srebrenica, ha rinviato ieri, 17 maggio, il processo per crimini di guerra e contro l’umanità, dopo la prima e  sola udienza, celebrata  tra tensioni e polemiche,
Alphons Orie, presidente del tribunale speciale per i crimini nella ex Jugoslavia commessi durante il conflitto degli anni Novanta, confluita nel Tribunale Penale Internazionale, ha dichiarato che: ”La corte ha ritenuto opportuno sospendere la presentazione delle prove dell’accusa, il processo è rimandato a data da definire”.
 Salta di conseguenza l’udienza del 29 maggio, quando dovevano comparire i primi testimoni. La corte  ieri ha riconosciuto che l’accusa aveva commesso un errore nella trasmissione di alcuni documenti alla difesa. Gli avvocati di Mladic lunedì scorso avevano chiesto un aggiornamento di sei mesi.
Il presidente Orie, per il quale era stata fatta una richiesta di rimozione per conflitto di interessi, in quanto olandese, il cui Paese con un suo contingente Onu mancò di proteggere le vittime civili di Srebrenica nel 1995, ha ammesso che l’accusa ha mancato nel trasmettere per tempo alla difesa di Mladic gli atti. Anche la procura, guidata da Serge Brammertz, ha ammesso l’errore.
 Il 70enne Mladic è comunque rimasto privo di emozioni di fronte alle prime testimonianze presentate ieri dal procuratore Peter McCloskey, che ha mostrato un filmato di un’esecuzione di massa di musulmani bosniaci. L’unico cenno di vita avuto dal generale è stato riservato ai parenti delle vittime, verso cui ha assunto un atteggiamento sprezzante e minaccioso.
”Si tratta di un processo molto importante poiché la giustizia ritiene Mladic, quale comandante dei serbi di Bosnia, e Radovan Karadzic, quale architetto della politica di pulizia etnica, esponenti dello stesso progetto criminale”, aveva affermato Brammertz alla vigilia del processo a Mladic, garantendo un processo equo. Oggi tutto il procedimento però è a rischio, come lo  è stato fino ad ora per Karadzic, per Vojslav Seselj, comandante di paramilitari serbi durante la guerra, e per l’ex presidente Milosevic, morto in carcere prima di una sentenza.
Il timore più grande è che anche per gli altri processi non si arriverà mai ad una sentenza. Una delle sopravvissute di Srebrenica, Hatidza Mehmedovic, ha ichiarato: “Ho sepolto entrambi i miei figli e mio marito. Ora vivo sola, con il ricordo dei miei bambini. Dio li giudicherà”. 

sabato 3 marzo 2012

Diritti umani: Darfur

" Giovedì 23 febbraio, nella prestigiosa Sala Nassirya di Palazzo Madama in Roma, è stato presentato il nuovo rapporto 2011-2012 sulla crisi umanitaria in Darfur “Sudan, un Paese in fiamme”, curato da Italians for Darfur ONLUS.
Un titolo quanto mai indicativo, da solo, della situazione in Sudan, che resta tesissima, nonostante si susseguano, per ora solo sulla carta, accordi e trattative di pace tra centro e periferie del grande stato africano.
Il rapporto è stato illustrato dalla presidente di Italians for Darfur, Antonella Napoli, insieme al senatore Pietro Marcenaro, presidente della Commissione per i diritti umani del Senato, Beppe Giulietti, portavoce di Articolo 21, Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International, i rappresentanti della comunità del Darfur in Italia e il presidente del Sudan People's Liberation Movement Italia, Fred Osuru. Alla conferenza sono intervenuti anche i testimonial della nuova campagna di sensibilizzazione, Tony Esposito (già impegnato per il Darfur dal 2010) e Mark Kostabi, artista di fama internazionale che ha realizzato per 'Italians for Darfur' un'opera inedita la cui vendita sosterrà i progetti in Sudan dell'associazione.
Non 'è pace in Sudan. Il rapporto parla chiaro: da quando l'80% dei proventi dalla vendita del greggio sud sudanese non giunge più a Khartoum dal Sud Sudan, che dal luglio scorso ha dichiarato la sua indipendenza, si registrano continui ammassamenti di truppe lungo i confini tra i due stati.
Risale a solo pochi giorni fa la firma dell’ultimo accordo di non belligeranza, quello di Addis Abeba, tra le due parti e subito violato dalle forze aeree di Khartoum, che avrebbero bombardato la città di Jau, in Sud Sudan.
“Non vogliamo la guerra”, ha ribadito più volte Fred Osuru, rappresentante in Italia del SPLM “ e non finanziamo nè sosteniamo i ribelli armati nel Nord Sudan e in Sud Kordofan.”. “Siamo uno Stato giovane, appena nato, che deve fondare le proprie radici democratiche, come possiamo pensare a una guerra?”.
E’ un accorato appello alla comunità internazionale, affinchè non permetta che l’ennesima questione petrolifera tra due Stati africani degeneri in una nuova sanguinosa guerra.
Non va meglio in Darfur, dove 1 milione e 900 mila sfollati continua a vivere nei campi profughi. Nei primi mesi del 2011 i nuovi transfughi dalla guerra erano già 80.000. Aumentano i rientri nei propri villaggi, ma sono ancora un numero che non conforta sebbene faccia sperare in meglio, visto il trend positivo dei primi mesi del 2012. Il rientro ai propri villaggi è comunque rallentato dalle continue violenze e dalla ripresa degli scontri in molte aree della regione.
Yakub Abdelnabi, in veste di rappresentante del Justice and Equality Movement in Italia, movimento che a Luglio ha perso il leader Khalil Ibrahim, rimasto ucciso in un bombardamento, ha chiesto che non venga dimenticato il dramma, ancora vivo, della gente del Darfur. Il 70% del Darfur, fatta eccezione delle capitali, dice Yakub, è in mano ai ribelli che cercano di garantire la protezione dei civili dalle incursioni armate. Unico problema, il bombardamento aereo. “Serve subito la no-fly zone”, insomma, una richiesta che da sempre le associazioni per i diritti umani hanno rivolto alla comunità internazionale, quale unica efficace soluzione del conflitto in Darfur. [M.A.] dalla newsletter di Italians for Darfur

Diritti umani : Cile

" In Cile sono ancora pendenti oltre 1268 processi per violazione dei diritti umani commessi durante il governo militare di Augusto Pinochet. Parola del presidente della Corte Suprema, Rubén Ballesteros.
In occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, il presidente ha precisato come il 2011 sia stato segnato da un aumento significativo delle denunce. Si sono registrate, infatti, 726 denunce corrispondenti a casi sinora mai aperti.
Fra questi, la morte del presidente Salvador Allende nel palazzo governativo de La Moneda, l’11 settembre 1973, e la morte, pochi giorni dopo, del poeta Salvador Allende, premio Nobel della Letteratura nel 1971 e molto vicino al socialismo odiato da Pinochet. Tutto casi, ha precisato, che non scadranno mai e che dunque avranno tutto il tempo per essere portati a termine.
Nel suo discorso, Ballesteros ha affrontato anche la questione delle critiche che lo scorso anno il Governo rivolse ai giudici e ai procuratori accusati di essere blandi con i delinquenti: “Chiedo rispetto per l’autonomia del potere giudiziario, ricordando che solo la Giustizia e lo Stato di diritto possono garantire che chi mette in atto le leggi agisca in forma realmente indipendente”.
Ma se quest’ultimo argomento era prevedibile venisse affrontato, molto meno lo è quello sui diritti umani, visto che Ballesteros è un personaggio la cui elezione alla Corte Suprema – dicembre 2011 – ha suscitato molti dubbi proprio nelle organizzazioni in difesa dei diritti umani e fra le minoranze, come il movimento Mapuche. Quest’uomo è colui che, mentre era membro della 2° Sala Penal della medesima Corte, ha applicato la Legge sull’Amnistia a tutti i violatori dei diritti umani che gli sono passati sotto mano. Non è dunque un garante della trasparenza e della credibilità, elementi indispensabili specialmente per chi va a ricoprire un ruolo simile. Le sue simpatie reazionarie e le sue azioni a favore della dittatura militare non sono novità e certo la verità e la giustizia non godranno affatto della sua presenza. Dunque solo col tempo si vedrà dove vorrà veramente andare a parare e se il Cile recupererà rimediando alle tante troppe violazioni dei diritti fondamentali che continuano a perpetrarsi indisturbate." di Stella Spinelli da www.eilmensile.it
Il Cile ci ha insegnato che la vita umana può essere ritenuta non importante per le dittature e che la democrazia può essere fragile ed in pericolo quando i dittatori decidono di agire impunemente con il silenzio del mondo che guarda impassibile senza fare nulla per troppo tempo