La natura è armonia
Vivere a contatto con la natura è armonia
Armonia dell'anima,
Armonia della mente,
Armonia fisica
Armonia con se stessi e con gli altri...
Il fuoco ha bruciato il sud dell'Italia e la Grecia. Natura distrutta. Morti e feriti. L'armonia del nostro territorio si è infranta.
La follia umana non è mai armonia. La follia degli uomini che hanno appiccato quegli incendi è male, è morte, è dolore, è distruzione...
C'è sempre più male in noi e nel nostro mondo e l'armonia sta svanendo oscurata da sentimenti di odio, di violenza, di rabbia e di disperazione...
La "civile" Inghilterra ha scoperto la violenza giovanile delle gang che uccidono i bambini innocenti e l'indifferenza di chi era stato avvertito, ma non ha fatto nulla per impedire un efferrato omicidio.
Un paese moderno e libero, la Gran Bretagna, il cui governo però ha deciso la deportazione di Pegah Emambakhsh, la giovane lesbica fuggita due anni fa dall’Iran passando dalla Turchia. La sua richiesta di asilo è stata rifiutata perché non c’è modo di dimostrare il suo orientamento sessuale!
Non importa loro che rischi le cento frustate previste dal codice penale iraniano. Una pena inferiore rispetto alla condanna morte, prevista per il reato di sodomia, ma da non sottovalutare tenuto conto che, tornata in cella, non sarà certo un medico a occuparsi delle ferite.
Detenuta in un centro di accoglienza nei pressi di Bedford, Pegah sarà deportata martedì 28 agosto con il volo diretto della British Airways delle 21.55 dall’aeroporto londinese di Heathrow. Le assistenti di volo dovranno avere l’accortezza di liberarla dalle manette poco prima dell’atterraggio per darle modo di indossare spolverino e foulard, altrimenti rischierà un’ulteriore dose di frustate per avere contravvenuto all’obbligo del velo.
Ad attenderla in aeroporto non ci saranno i due figli, frutto di un matrimonio combinato, che non può più vedere. E non ci sarà nemmeno la sua compagna, arrestata tempo fa e di cui nulla si è più saputo. Al loro posto ci saranno le poliziotte, una novità voluta dal presidente Ahmadinejad: sono in servizio da pochi mesi ma già si sono fatte la fama di essere spietate.
Pegah finirà in carcere, giusto il tempo di calmare le acque e dare avvio al solito processo sommario, visto che la magistratura è da tempo controllata dai falchi conservatori. Nel suo caso, visto il polverone che ha sollevato, potrebbe essere persino accusata di avere attentato alla sicurezza dello Stato.
I rischi che corre Pegah sono gli stessi di Yasmin K., a rischio espulsione in Germania, e che avrebbe corso la lesbica iraniana ventisettenne che nel 2006 non fu deportata perché i giudici di Stoccarda decisero che, pur non avendo le carte in regola per la concessione dell’asilo, non la si poteva condannare a morte sicura.
La campagna affinché Pegah ottenga l’asilo è portata avanti da Matteo Pegoraro e Roberto Malini dell’associazione italiana EveryOne, che sta gestendo il caso con la cooperazione dell’Iranian queer organization, una delle numerose organizzazioni omosessuali iraniane all’estero.
A salvare la vita di Pegah – suggerisce Arcigay - potrebbe essere la richiesta del premier Romano Prodi al britannico Gordon Brown, affinché il Regno Unito rispetti la Convenzione dell’Onu per i rifugiati che obbliga i Paesi firmatari a offrire protezione a tutti coloro che temono di essere perseguitati per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un particolare «gruppo sociale» od opinione politica. È dal 1999 che Londra riconosce gli omosessuali «gruppo sociale» e per questo due anni fa Pegah aveva scelto proprio il Regno Unito.
Detenuta in un centro di accoglienza nei pressi di Bedford, Pegah sarà deportata martedì 28 agosto con il volo diretto della British Airways delle 21.55 dall’aeroporto londinese di Heathrow. Le assistenti di volo dovranno avere l’accortezza di liberarla dalle manette poco prima dell’atterraggio per darle modo di indossare spolverino e foulard, altrimenti rischierà un’ulteriore dose di frustate per avere contravvenuto all’obbligo del velo.
Ad attenderla in aeroporto non ci saranno i due figli, frutto di un matrimonio combinato, che non può più vedere. E non ci sarà nemmeno la sua compagna, arrestata tempo fa e di cui nulla si è più saputo. Al loro posto ci saranno le poliziotte, una novità voluta dal presidente Ahmadinejad: sono in servizio da pochi mesi ma già si sono fatte la fama di essere spietate.
Pegah finirà in carcere, giusto il tempo di calmare le acque e dare avvio al solito processo sommario, visto che la magistratura è da tempo controllata dai falchi conservatori. Nel suo caso, visto il polverone che ha sollevato, potrebbe essere persino accusata di avere attentato alla sicurezza dello Stato.
I rischi che corre Pegah sono gli stessi di Yasmin K., a rischio espulsione in Germania, e che avrebbe corso la lesbica iraniana ventisettenne che nel 2006 non fu deportata perché i giudici di Stoccarda decisero che, pur non avendo le carte in regola per la concessione dell’asilo, non la si poteva condannare a morte sicura.
La campagna affinché Pegah ottenga l’asilo è portata avanti da Matteo Pegoraro e Roberto Malini dell’associazione italiana EveryOne, che sta gestendo il caso con la cooperazione dell’Iranian queer organization, una delle numerose organizzazioni omosessuali iraniane all’estero.
A salvare la vita di Pegah – suggerisce Arcigay - potrebbe essere la richiesta del premier Romano Prodi al britannico Gordon Brown, affinché il Regno Unito rispetti la Convenzione dell’Onu per i rifugiati che obbliga i Paesi firmatari a offrire protezione a tutti coloro che temono di essere perseguitati per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un particolare «gruppo sociale» od opinione politica. È dal 1999 che Londra riconosce gli omosessuali «gruppo sociale» e per questo due anni fa Pegah aveva scelto proprio il Regno Unito.
Ben diversa invece la storia delle giovani afgane che giocano a pallone.
La nazionale femminile di calcio afgana ha debuttato all’estero, in Pakistan, per affermare la propria indipendenza. 20 giocatrici, due allenatrici e un coordinatore, tecnico capo e portavoce di una squadra femminile nata tre anni fa e mai messa alla prova.
Venerdì scorso la nazionale afghana ha attraversato il confine, come squadra riconosciuta, con le maglie sociali, i gagliardetti da scambiare, le tute uguali. Un espatrio consentito e addirittura incoraggiato. Sono andate in Pakistan per partecipare al terzo «Torneo femminile», con le partite che durano 70 minuti con gironi a metà fra nazionali e club: Punjab, Afghanistan, Pakistan e poi Sindh red, Diya, Young Rising star.
Venerdì scorso la nazionale afghana ha attraversato il confine, come squadra riconosciuta, con le maglie sociali, i gagliardetti da scambiare, le tute uguali. Un espatrio consentito e addirittura incoraggiato. Sono andate in Pakistan per partecipare al terzo «Torneo femminile», con le partite che durano 70 minuti con gironi a metà fra nazionali e club: Punjab, Afghanistan, Pakistan e poi Sindh red, Diya, Young Rising star.
La normalità è lontana, eppure non è mai stata così a portata di mano.
Il viaggio in Pakistan è storico, perchè fino a oggi le ragazze, che non sono mai state tanto numerose, si sono esibite in partite amichevoli con formazioni di quartiere e bambini.
Contro gli uomini non si gioca. Non esistono società, solo un gruppo che si allena nello stadio di Kabul. È lo stesso stadio scelto dai talebani come mattatoio. Durante il regime non c’era il calcio, neanche quello maschile. Nessuno ha più giocato dal 1984, la nazionale uomini è riapparsa nelle qualificazioni per la coppa d’Asia nel 2002, quella delle donne non ha idea di quando potrà avvicinarsi ad una competizione vera, però per la prima volta ha lasciato lo stadio di casa.
È un posto di fantasmi, usato come esempio di quanto l’Afghanistan sia cambiato e anche l'unico luogo in cui sfogare la voglia di indipendenza.
A lungo è stato gestito dalle ong, organizzazioni non governative, l’ultima si chiama «Fighting for peace» e si occupa di boxe, ma ci sono anche corsi di taekwondo piuttosto seguiti.
A lungo è stato gestito dalle ong, organizzazioni non governative, l’ultima si chiama «Fighting for peace» e si occupa di boxe, ma ci sono anche corsi di taekwondo piuttosto seguiti.
«Le ragazze prima non potevano circolare ora possono tirare pugni», hanno poster di grandi pugili appesi alle pareti, sognano di andare alle Olimpiadi anche se la boxe femminile, al momento, non è sport Olimpico.
L’emancipazione dentro il Kabul Stadium segue un corso indipendente e il fatto che si provino i rigori dove prima le donne venivano giustiziate con un colpo alla nuca, è un altro mondo, non solo un passo avanti, anche se in tv non si parla dell’Afghanistan per la nazionale femminile e le notizie sono altre. Anche se si contano i rapimenti e non i gol e solo quest’anno due giornaliste sono state ammazzate in casa loro, colpevoli di aver scelto un lavoro poco adatto e di farlo in modo troppo spregiudicato. Sopra la stessa area di rigore dove Zarmina è stata giustiziata il 16 novembre 1999, oggi, Shamila Khusrid entra in scivolata su un’avversaria.
Zarmina, madre di 5 figli, aveva ammazzato il marito. La picchiava da anni, non c’è stato processo, solo un campo spelacchiato dove inginocchiarsi in mezzo a gradinate vuote e morire.
Il campo è sempre malridotto, servono troppi soldi e già è stato difficile reperirli per la trasferta storica. Partenza all’ultimo minuto. Mai uscite dal loro paese, dalla loro città, mai usato il campo intero. Ne sfruttano metà e lavorano con le due allenatrici femmine anche se quando bisogna entrare in campo, la formazione la decide l’uomo di casa.
Il torneo pakistano è «una collaborazione per uscire dai periodi bui», le giocatrici «mettono una grinta in quello che fanno che le porterà lontano», e anche se «non hanno tutti i ruoli a posto, ora importa arrivare allo stesso livello degli avversari».
Il torneo pakistano è «una collaborazione per uscire dai periodi bui», le giocatrici «mettono una grinta in quello che fanno che le porterà lontano», e anche se «non hanno tutti i ruoli a posto, ora importa arrivare allo stesso livello degli avversari».
Al Jinnah sport stadium di Islamabad, le iscritte indossano il berretto da baseball e le tute lunghe. Non portano mai il velo, durante gli allenamenti stanno spesso a capo scoperto e sembrano convinte che questa nuova generazione farà la differenza e la farà giocando a pallone. O tirando pugni o con le arti marziali.
Tutto lo sport prima era proibito, ma nessuna vuole giocare a pallavolo e hanno le idee confuse su come si arriva alle Olimpiadi e su quanti gradi di separazione esistono tra il «Torneo femminile» di Islamabad e la coppa del mondo.
Sanno quanto è stato importante uscire dal paese per giocare e 70 minuti possono anche non essere regolamentari, ma non importa: la federazione che benedice il viaggio e la fascia da capitano e i tacchetti sotto le scarpe sono molto professionali.
Le giocatrici del Pakistan hanno un’allenatrice tedesca, Monica Staab. L’estate scorsa sono state in Giordania per un quadrangolare e hanno scoperto quanto è diverso muoversi per qualcosa che conta, contro un’altra nazione.
Per la prima volta parteciperanno alla qualificazioni per la Coppa d’Asia nel 2008.
Le afghane vogliono arrivare lì, a quel livello, a uscire dal caso sociale per diventare una nazionale che si gioca un posto nel continente. Non nel 2008, ma la prossima volta.
Il torneo femminile è stato voluto dalla Fifa e approvato in Svizzera, a maggio, durante il 57° congresso: «Sarà utile, per le donne nei paesi musulmani il calcio è un mezzo di emancipazione». L’emancipazione dell’Afghanistan che non segue linee rette e passa per lo stadio di Kabul, con tutti i suoi fantasmi.
Attualmente sono 500 le Atlete tesserate a Kabul dove, fino al 2001 alle donne era proibito fare sport.
Il torneo femminile è stato voluto dalla Fifa e approvato in Svizzera, a maggio, durante il 57° congresso: «Sarà utile, per le donne nei paesi musulmani il calcio è un mezzo di emancipazione». L’emancipazione dell’Afghanistan che non segue linee rette e passa per lo stadio di Kabul, con tutti i suoi fantasmi.
Attualmente sono 500 le Atlete tesserate a Kabul dove, fino al 2001 alle donne era proibito fare sport.
Un piccolo passo verso l'armonia in un paese ancora in guerra, dove la morte e l'orrore sono sempre presenti, purtroppo...
Armonia per vivere in pace !