E' morta Angela Casella, che osò sfidare la 'ndrangheta quando le rapirono il figlio
Nel giugno 1989 Angela si incatenò nelle piazze di Platì e San Luca, paesi dell'Aspromonte, per chiedere la liberazione di suo figlio Cesare
«Combatti con qualcosa che non vedi e che non senti». Erano state le sue parole per cercare di sconfiggere quegli uomini senza volto e senza scrupoli. Piccola, minuta, il volto scarno, il coraggio negli occhi I giornali la chiamarono «Mamma coraggio». Si legava dentro a una tenda e fuori appoggiava dei cartelli: «Cesare, forse tu non hai nemmeno una tenda». O si teneva solo ai ceppi: «Mio figlio è così da 17 mesi». Attorno aveva qualche madre calabrese. Colpiva i cuori, in silenzio. E’ morta in silenzio, tre anni di interventi chirurgici, una lunga malattia, una voce flebile: «Non odio la Calabria. E’ una regione bellissima. Ne ho un ricordo stupendo, se penso ai quei giorni. Di solidarietà».
Cesare Casella fu liberato il 30 gennaio 1990, quando la madre era tornata a casa e i carabinieri avevano arrestato Giuseppe Strangio, l’esattore della banda, la notte di Natale, mentre cercava di ritirare un nuovo miliardo del riscatto.
La sera di lunedì 18 gennaio 1988, mentre Cesare stava rientrando con la sua auto nella nebbia, una vettura gli bloccò la strada e due banditi incappucciati lo prelevarono puntandogli contro una pistola. Prima lo tennero in un garage, vicino a Pavia, poi lo trasferirono sull’Aspromonte. Nella stessa zona erano prigionieri Marco Fiora e Claudio Celadon, altri due sequestri che fecero storia. Li costringevano in tane lunghe due metri, larghe uno, e alte uno e mezzo, ai piedi di un albero alla cui base erano assicurate le catene da legare alla caviglia e al collo della vittima. Le pareti erano foderate da un muro di sassi. Sopra, una lamiera ricoperta di foglie.
Quando, dopo aver già ricevuto il miliardo pattuito, il telefonista della banda ne pretese altri 5, insultando il padre Casella, Angela decise di andare in Calabria per manifestare la sua disperazione. Scese una prima volta nel novembre 1988. Poi il 10 giugno ’89, per rompere il silenzio e smuovere le coscienze. Girò le piazze e raccolse firme di solidarietà, suscitando ammirazione e commozione e inducendo lo Stato a fare qualcosa di più. Alla fine, quella drammatica partita la vinse lei. Cesare venne liberato dopo 743 giorni. Solo Carlo Celadon restò più tempo in mano agli aguzzini: 831 giorni.
«Non bisogna mai aver paura» sono le parole di Angela che ricorderò sempre e la sua grande forza di donna coraggiosa, tenace e combattiva.
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