Ieri era il settantesimo anniversario dell’8 settembre 1943, il giorno dell’armistizio, quando gli italiani, destituito Benito Mussolini da meno di un mese e mezzo, si arresero alle forze Alleate
In effetti l’armistizio era stato firmato cinque giorni prima, il 3, ma poiché l’8 non aveva ancora avuto applicazione perché i vertici dell' Esercito italiano si consideravano impreparati a supportare l’azione degli Alleati, mentre in realtà erano impreparati ad affrontare la ovvia reazione tedesca, il generale americano Dwight Eisenhower diede l’annuncio alle 18,30 da Radio Algeri.
La notizia raggiunse il re Vittorio Emanuele III, che fu perciò obbligato a dare una conferma, diramata più di un’ora dopo.
All’alba del 9 settembre, insieme con la famiglia, alcuni generali e alcuni ministri del governo Badoglio, il re lasciò Roma fuggendo fino a Brindisi. Un episodio vergognoso ed indegno, le cui conseguenze ricaddero quasi subito sulla pelle dei soldati italiani, lasciati ovunque allo sbando
Roma era rimasta senza il re, senza il governo, senza generali, senza alcuna direttiva a chi restava in armi e no: se l’erano tutti data a gambe !!!
Nei dintorni di Roma c’erano sei divisioni italiane e soltanto due tedesche, ma l’armistizio informava della fine delle ostilità con gli Alleati . La gente festeggiava per strada, cantava e ballava e i soldati buttavano le armi e sostituivano le divise con abiti civili per tornare più in fretta a casa. Tutti erano felici e convinti della fine della guerra.
Peccato che non fu così, purtroppo
Gli Italiani non si resero conto che l'Italia, Mussolini, il re ed un governo debole ed irresponsabile, si erano alleati al mostro germanico, ai Nazisti con i campi di sterminio e la folle politica di dominio
Se gli Italiani erano convinti che i Tedeschi l’avrebbero presa con un’alzata di spalle, si sbagliavano di grosso
Rosario Romeo dichiarerà una verità cruda e deprimente: noi Italiani eravamo un popolo di «antifascisti e antitedeschi dalla venticinquesima ora», noi Italiani eravamo un popolo «moralmente e intellettualmente» incapace di cogliere la gravità dei suoi atti, o della sua indolenza. Questo valeva anche e soprattutto per il re, naturalmente, che aveva appoggiato ogni scelta autoritaria e liberticida del Duce, e che mai aveva trovato il coraggio di trarre le conseguenze di quel regime e di quella guerra: se ne restò imbelle al Quirinale, aspettando la mossa di altri, o il lampo del famoso stellone. Nei suoi diari, accreditati dallo storico De Felice, Dino Grandi (ministro degli Esteri e ambasciatore a Londra, il 25 luglio ’43 ministro Guardasigilli e presidente della Camera) scriveva di aver chiesto ripetutamente a Vittorio Emanuele III di prendere in mano la situazione, ripristinare lo Statuto Albertino e restituire prerogative alle istituzioni. Bisognò attendere che Grandi entrasse al Gran Consiglio con l’ordine del giorno che di fatto abbatteva il Duce, e con due bombe a mano in tasca, un raro esempio di un regime autoaffondato.
Pochi giorni dopo le truppe naziste occuparono il suolo italiano e sappiamo come andò a finire... due anni di guerra, di lotte fratricide, di pochi che inizialmente fuggirono in montagna per combattere, dei soldati italiani in fuga catturati e spediti nei campi di concentramento nazisti a lavorare come schiavi, dei bombardamenti, di uomini donne e bambini trucidati in stragi senza senso, come a Boves o a Stazzema e Marzabotto, di orrori senza fine fino al 25 aprile 1945, il giorno della Liberazione, quando Mussolini rimase a Milano sino al tramonto, a colloquio col cardinale Schuster, e poi fuggì lasciando campo libero al Comitato di liberazione
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