domenica 6 ottobre 2013

Il cimitero dei Senza Nome

Oggi sul quotidiano  La Stampa ho letto un bellissimo articolo di Domenico Quirico, inviato a Lampedusa  dopo la tragedia dei migranti di giovedì. Con la sua solita sensibilità ed una scrittura inconfondibile ricca di particolari e di pietà Quirico narra della sua visita al cimitero dell'isola, dove i pochi senza nome seppelliti lì hanno una croce sulla povera tomba abbandonata con un  numero stampigliato sopra, probabilmente il numero dell’obitorio
" A Lampedusa anche il cimitero è tutto tagliato nello stesso giallo macigno dell’isola. A sinistra si sente la presenza del mare invisibile. 
Al limite dell’orizzonte gravato di una cinerea nuvolaglia in processione. Ho appena ascoltato parole incallite: «Non c’è posto per i morti, li portano via con la nave…». Come: non c’è posto? Come non può esserci posto per i morti? Allora ho camminato fin quasi al mare, per vedere. Qui, mentre il chiasso si fa assordante, senza garbo né grazia, e svia e annulla perfino la pietà, scopri come l’uomo è diventato una cosa che si prende, che si deporta, si dovrebbe dire che si importa e che si esporta come un oggetto; scopri come l’uomo braccato, che chiede aiuto, non è diventato il prossimo che si deve amare come se stesso.
Le tombe, le loro tombe, sono poche, in un cantuccio, tra erbacce che assediano la rara, antica pietà di qualche fiore. Tra marmi e gessi, croci di umile legno asciugate dal sole e dal vento; ancora si leggono numeri dipinti in nero, «4, 10, 13», forse le sigle dell’obitorio che sostituiscono i nomi. Qualcuno ha deposto per terra uno, due crocefissi, avanzi evidenti, rimasugli di altre tombe, rimasugli di pietà. Anche il volto del Cristo è ormai nero di terra e di ruggine. Sono emigranti di altri naufragi: restituiti dal mare, piccoli corpi abbandonati, senza speranza e senza tempo, come casse rimaste in fondo a un magazzino e che nessuno ha più reclamato, e non si sa da dove siano venute e che non usciranno mai dai loro confini. Pochi: una ventina forse. E gli altri, migliaia, dove sono? Un isolano antico, alto dritto e asciutto, che risponde lento e scolpito ad ogni domanda, mi racconta che in Sicilia ci sono decine di cimiteri abbandonati riaperti in questi anni a furia per seppellire «gli africani». Forse in queste tombe, in queste anime tunisine, sudanesi, libiche, africane, rimasero custodite per sempre la perduta sovranità di un’onda, la tempesta, il sale, il mare che palpita e mugghia come oggi; che li ha uccisi. Il mare di ognuno, minaccioso e chiuso, un suono incomunicabile, un movimento solitario che era divenuto farina e spuma dei loro sogni prima di sfinirli e finirli. I morti, gli altri, li rivedi solidi, nei nomi, nelle fotografie nelle statue, come se la loro morte e la loro vecchiezza fossero aboliti. Questi no: morti, si può dire, due volte.
Su per le balze di Lampedusa la vita continua a fiorire a fiotti frenetici di case e di piante, l’affannarsi dell’uomo e la bellezza coprono l’isola come una maschera dipinta della felicità che fugge. Ma questi naufraghi non sono riusciti ad arrivare lì. Serbarono nel loro ultimo grido con l’acqua che li afferrava la propria parte di infinito, il loro frammento di mare.
In quest’isola cristianesimo e islam si sono dati battaglia, con frenesia e rabbia, e non erano le battaglie inventate dalla fantasia di Ariosto, che a Lampedusa ha fatto duellare Orlando e Agramante e il re Gradasso. I musulmani delle sciancate carrette del mare hanno sempre il terrore alle spalle, consumati dallo sforzo di non voltarsi per poter guardare la loro paura. Le hanno dato forme diverse: la fame, la guerra, regimi infami come quello eritreo. La verità per loro era tabù, la morte che si avvicinava ogni giorno in un luogo diventato straniero. Ella è rimasta in un cimitero che nessuno visita, in una tomba dove hanno perso anche la loro unica certezza, il nome del loro dio, sepolti come sono sotto una croce.
La morte non si può guardare in faccia, è vero. Ma qui puoi guardare in faccia la morte della nostra speranza. Questi uomini hanno perduto tutto: vita, destino, identità, nome, perfino dio. La disperazione non è necessariamente un crimine. E da lei che parte il colpo d’ala, formidabile, che porta a capire ed amare. Accettiamo dunque la disperazione di questo luogo solo per prepararci a quel balzo.
Il cimitero al mattino è vuoto, si è levato il vento e riempie le stradine tra le tombe e pare il brusio di una folla lontana. Qualche ramo tocca le croci di legno con la sua carezza, lieve come per non destare chi qui riposa. Ritrovi, sgomento, quasi l’eco dei primi sospiri, gemiti e singhiozzi del dolore umano, prima che diventi urlo, ghigno, rivolta, disperazione e ferocia e sia lo scoperto dolore, mio o tuo, e non quello uguale e perpetuo sepolto nel cuore di tutti. Che dimenticarlo puoi, ma a un brivido senti che c’è.
Chi era questa gente, chi è questa gente che attraversa il mare? La risposta è semplice: hanno creduto in noi, non hanno ricevuto come ricompensa che una vita sempre più solitaria e una morte abbandonata. Al centro di accoglienza, sprofondato in un baratro pallido di erbe secche e rifiuti, livido bianco di rocce, sono andato a spiare i volti dei sopravvissuti. Occhi grandi guardano attraverso la rete, giacigli, coperte, padelle: profughi ancora, per sempre. Ognuno di loro porta dentro di sé un ricordo di terremoto, è un petalo di terrore che vive attaccato alla nostra normalità. In questi Paesi che per noi sono nomi, Somalia, Eritrea, Siria, Maghreb, si è eroi ancora prima di nascere. Perché si deve lottare per sopravvivere, ma non solo contro il kalashnikov che uccide o la siccità che inghiotte. E’ un terrore totale, una istantanea insicurezza, l’universo che ogni giorno crolla e si dissolve. E a sera anche noi restiamo soli con i loro morti, e con tutti i morti, senza sapere perché siamo ancora vivi.  "
Dopo aver  letto questo articolo ringrazio quel dio che Quirico ha nominato qui sopra perché gli ha salvato la vita in Siria e   ha dato a noi tutti, suoi affezionati lettori, la possibilità di riaverlo tra noi e di poter continuare a seguirlo nei suoi percorsi di giornalista così speciale e nei suoi pensieri tanto particolari e toccanti 
Un pensiero anche ai morti senza nome del cimitero di Lampedusa ed una preghiera per tutti i morti della immane tragedia di giovedì scorso

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