" Il Giorno della Memoria è stato istituito, dal Parlamento italiano, con la legge n. 211 del 20 luglio 2000 “Istituzione del “Giorno della Memoria” in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti”.
All’articolo 1 la Legge n. 211 stabilisce che “La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, “Giorno della Memoria” (...)”.
La tragedia della deportazione non finisce, in realtà, con l’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, il 27 gennaio del 1945.
Quando l’esercito sovietico comincia ad avvicinarsi ai campi di sterminio, gli internati superstiti vengono evacuati e costretti a mettersi in cammino verso l’Occidente. Dei 66.000 evacuati da Auschwitz persero la vita circa 15.000 persone. Negli ultimi due mesi di guerra 250.000 prigionieri sono costretti a compiere le marce della morte. La data che segna la definitiva liberazione dei lager è il 5 maggio 1945, quando gli uomini della 11a Divisione corazzata americana del generale Patton liberano Mauthausen.
Primo Levi ricorda che “il sistema concentrazionario nazista rimane un unicum, sia come mole sia come qualità. In nessun altro luogo e tempo si è assistito ad un fenomeno così imprevisto e così complesso: mai tante vite umane sono state spente in così breve tempo, e con una così lucida combinazione di ingegno tecnologico, di fanatismo e di crudeltà”.
Nel Giorno della Memoria, accanto alla Shoah che costituisce la più grande tragedia del Novecento con lo sterminio di sei milioni di ebrei, si ricorda la deportazione da parte dei nazisti che, in Italia, trovano una validissima collaborazione nella Repubblica di Salò, degli oppositori politici e dei lavoratori arrestati a seguito
degli scioperi del marzo 1944.
Il New York Times e Radio Londra definirono quegli scioperi che videro la partecipazione accanto agli operai delle più importanti fabbriche, dei colletti bianchi, di docenti universitari e di studenti, come “la più grande manifestazione di massa mai effettuata nell’Europa occupata dai nazifascisti”.
La repressione nazifascista fu durissima e fu attuata sulla base di precisi elenchi fatti compilare dalle direzioni
aziendali. La deportazione politica ha assunto a Milano e nell’area industriale di Sesto San Giovanni, notevoli dimensioni per la grande e compatta partecipazione dei lavoratori agli scioperi del 1944.
Quasi tutti gli arresti avvenivano di notte, nelle case, ed erano effettuati dalla Guardia Nazionale Repubblicana, dalla Muti, dall’Ufficio Politico Investigativo.
Mentre per gli ebrei la destinazione prevalente era il lager di Auschwitz, per gli oppositori politici e i lavoratori la meta obbligata era Mauthausen, con i suoi quarantanove sottocampi.
Chi arriva a Mauthausen è immediatamente consapevole che in quel campo si è vivi solo e sino a quando si è in grado di lavorare, perché il diritto alla vita esisteva, ma non competeva a chi non era idoneo al lavoro.
Sin dall’stituzione del Giorno della Memoria, il Comitato Permanente Antifascista per la difesa dell’ordine repubblicano, in stretto accordo con la Comunità Ebraica milanese e con la Fondazione Memoria della Deportazione si è fatto promotore di iniziative volte a ricordare le tragedie provocate dall’avvento del nazifascismo in Europa, nella consapevolezza che un Paese senza memoria non può avere alcun futuro.
Nelle significative iniziative per il Giorno della Memoria, va sempre tenuto presente il messaggio di coloro che non sono ritornati dalla deportazione: quello di non negare lo sterminio dove è stato praticato, di non banalizzare e non confondere tutto con la sola violenza o la natura malvagia dell’uomo (perché la violenza aveva un solo nome: nazifascismo), di non dimenticare l’organizzazione specifica di un trattamento che programmaticamente annientava con il lavoro e programmaticamente sopprimeva con il gas gli inabili.
La ricorrenza del Giorno della Memoria ci deve fare riflettere .
Fare memoria legandola alla conoscenza storica significa combattere l’oblio che tende a cancellare le differenze, significa far rivivere, nella società contemporanea, che sembra aver perso la propria identità, i valori della pace, della solidarietà, della giustizia sociale, della politica posta al servizio del bene comune che animarono i combattenti per la libertà e coloro che resistettero nei lager nazisti.
Da quella resistenza all’oppressione è nata quel bellissimo dono che è la Costituzione repubblicana.
Etty Hillesum, un’ebrea olandese morta ad Auschwitz il 30 novembre 1943, così scrive nel suo diario dal campo di concentramento olandese di Westerbork, da dove, ogni lunedì partivano treni con destinazione Auschwitz: “Se noi salveremo i nostri corpi e basta dai campi di prigionia sarà troppo poco. Se non sapremo offrire al mondo impoverito del dopoguerra nient’altro che i nostri corpi salvati a ogni costo – e non un nuovo senso delle cose, attinto dai pozzi più profondi della nostra miseria e disperazione – allora non basterà. Dai campi stessi dovranno irraggiarsi nuovi pensieri, nuove conoscenze dovranno portar chiarezza oltre i recinti di filo spinato”.
Questo è il monito più profondo che viene dalla tragedia provocata dal nazifascismo e che deve rendere vigili sui pericoli che le nostre democrazie possono ancora correre per i rigurgiti neofascisti e neonazisti che pervadono l’Europa.
Il 27 gennaio ricorre l' anniversario della Liberazione del campo di concentramento di Auschwitz da parte dell’Armata Rossa sovietica, data scelta a livello internazionale quale “Giorno
della Memoria”, in cui ricordare gli oltre 12 milioni di vittime delle deportazioni e dello sterminio nei campi di concentramento nazifascisti.
Dopo ben 55 anni, in Italia, nel luglio del 2000, il Parlamento giunse all’approvazione della Legge N. 211/2000 che nel primo articolo stabilisce: “La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, “Giorno della Memoria”, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita, hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati”.
Il ricordo delle vittime del razzismo, della deportazione dei Rom, dei diversi e dei non normodotati, finalmente diventa un’indicazione dello Stato.
Gli italiani deportati furono circa 44.000, di cui 8.600 ebrei, 30.000 partigiani, antifascisti e lavoratori (la maggioranza arrestati e deportati dopo gli scioperi del 1944) e circa 5.000 IMI: il 90% di essi morì nei lager.
Spesso, quando si ricorda la tragedia delle deportazioni italiane, i lavoratori vengono dimenticati o considerati solo marginalmente, mentre essi costituiscono la maggioranza dei deportati italiani. I lavoratori italiani hanno avuto un ruolo fondamentale nella lotta contro il fascismo e la guerra, per riconquistare la libertà e la democrazia.
Due momenti importanti della lotta di Liberazione che videro protagonisti i lavoratori furono gli scioperi del marzo 1943 e 1944. Nel 1943, il 5 marzo, gli scioperi iniziarono a Torino alla Fiat Mirafiori; nei giorni e nelle settimane successive si estesero in Piemonte e poi – a partire dalla Falck – in Lombardia. Gli scioperanti nel 1943 – contro la guerra e il fascismo – furono oltre 150.000 e lavoravano in 217 aziende.
Molti furono gli arresti e le repressioni fasciste. Questa mobilitazione contribuì alla destituzione di Mussolini e alla costituzione del governo Badoglio., a cui seguì, l’8 settembre ’43, l’Armistizio con gli anglo-americani e l’occupazione nazista del Nord Italia.
I lavoratori svilupparono, sul finire del 1943 e l’inizio del ’44, lotte in varie fabbriche, rivendicando contemporaneamente: fine della guerra, fornitura di alimenti, il diritto al servizio mensa con primo e secondo, adeguamenti salariali, parità donna uomo.
Le truppe naziste del Comando Militare di Milano – dirette dal generale Zimmermann – entravano nelle fabbriche in sciopero come la Falck di Sesto San Giovanni, la Pirelli Bicocca, la Franco Tosi di Legnano, arrestando e poi deportando decine, centinaia di lavoratori.
Nel marzo 1944, oltre un milione e mezzo di lavoratori del Nord Italia, attuarono lo sciopero generale. La mobilitazione a Milano e a Torino iniziò con lo sciopero dei tranvieri che bloccarono i trasporti per una settimana.
Lo sciopero si estese a tutte le fabbriche, nelle banche; i tipografi e i giornalisti bloccarono la pubblicazione per cinque giorni del Corriere della sera.
Durante gli scioperi i nazisti arrestarono decine di migliaia di lavoratori (operai, impiegati, dirigenti), e li deportarono.
Molti partirono chiusi nei vagoni merci dal “Binario 21” della Stazione Centrale di Milano, sino ai campi di sterminio.
Sono 553 i lavoratori - di cui 417 operai, 31 manovali, 17 impiegati, 14 tecnici e dirigenti dipendenti della Breda, della Pirelli, della Falck, dell’Ercole Marelli e della Magneti Marelli - deportati e ricordati dal monumento al Parco Nord di Milano.
La fabbrica italiana con il maggior numero di lavoratori deportati è la Breda di Sesto, con 199 deportati, 122 dei quali non hanno fatto ritorno.
Gli scioperi dei lavoratori italiani - unici in Europa durante la guerra - ebbero una ricaduta politica mondiale, come sottolineato dal New York Times del 9 marzo 1944, che tra l’altro scrisse: “Non è mai avvenuto nulla di simile nell’Europa occupata che possa somigliare alla rivolta degli operai italiani disarmati come sono, sanno combattere con coraggio e audacia quando hanno una causa per cui combattere”.
E' indispensabile informare e formare le nuove generazioni sulla tragedia dei campi di sterminio che ha colpito i diversi, gli ebrei, gli antifascisti, i lavoratori, affinché fascismo e razzismo, vecchio e nuovo, non abbiano più cittadinanza in nessun paese civile.
Tutto ciò è possibile solo se si fanno vivere i valori che portarono i lavoratori alle lotte e al sacrificio della vita; gli stessi valori che sono fissati nella Costituzione repubblicana, che va fatta rispettare e attuare.
Quando venne istituito il Giorno della Memoria (in Italia nel 2000, dall’ONU nel 2005 e altrove in altre date), si poté legittimamente considerarlo come il punto d’arrivo d’una presa di coscienza comune a buona parte dell’opinione pubblica mondiale, e specialmente di quella europea e occidentale in genere. A più
di 50 anni dalla fine della guerra si riconosceva la specificità – anche e soprattutto dal lato delle vittime: il popolo ebraico – di quello che Churchill già immediatamente a ridosso dei fatti, ed anzi mentre ancora quasi si svolgevano, aveva definito “probabilmente il più grande e il più orribile crimine mai commesso nell’intera storia del mondo”.
In realtà, si trattava di qualcosa ch’era iniziato davvero qualche decennio prima, quando, almeno a partire dagli anni 70 (ma forse dal 1961, l’anno del processo Eichmann in Israele), il dibattito storiografico, ma anche la riflessione e l’interpretazione, oltreché la rappresentazione attraverso la letteratura, il cinema, ecc., avevano conosciuto un’impennata straordinaria, come se davvero fosse finalmente insorta, dopo lunga maturazione, una nuova consapevolezza, uno sguardo sullo sterminio degli ebrei che riusciva a staccarlo dallo sfondo, a stagliarlo e illuminarlo di luce propria rispetto alle complessive vicende della Seconda Guerra Mondiale.
Erano stati in particolar modo gli ebrei che non soltanto si erano già dati un loro “Giorno della Memoria” tra il 1953 e il 1959 (Yom ha- Shoah), ma soprattutto avevano già da un pezzo rielaborato in profondità la loro memoria ed anzi il loro vissuto, individuale e collettivo a un tempo, dell’Evento, mentre era la coscienza
pubblica “generale” che era nel frattempo maturata abbastanza da invocare, reclamare quasi, una giornata memoriale che fosse significativa e parlasse a tutti e per tutti, e soprattutto ai giovani delle nuove generazioni. Naturalmente, gli ebrei non potevano che vedere con favore e soddisfazione tutto quel lavorio e tutto quel fervore, che parevano davvero annunciare piena giustizia storica e, per il presente e il futuro, nuova consapevolezza e nuovo rispetto nei loro confronti. Mentre erano da considerarsi fisiologiche e un po’ scontate, almeno finché minoritarie, le voci dissonanti di chi accusava la parte ebraica di: vittimismo esagerato, esclusivismo e magari anche utilizzo improprio della memoria storica per giustificare, per esempio, l’esistenza e tutta l’azione “nel presente” dello Stato d’Israele.
In realtà, al di là del puro ricordare, richiamare alla memoria “quel ch’è stato”, quali potevano essere le finalità più profonde e radicali nell’istituire una ricorrenza del genere? Il Giorno della Memoria doveva senza dubbio testimoniare del significato universale di quanto accaduto al popolo ebraico (ma anche ad altri, e soprattutto agli zingari) durante la Seconda Guerra Mondiale e far riflettere, contemporaneamente, sulla
inaggirabile questione del: “perché gli ebrei?”. In effetti, i nazisti tedeschi e i loro complici vollero certo annientare l’uomo che era nell’ebreo, ma forse ancor più l’ebreo che è in ogni uomo, e cioè la forza superbamente umana, e davvero “universale”, della differenza, dell’individualità e della libera identità. Poiché è questa la vera, profonda universalità della condizione ebraica, quella che alla fine provoca nel profondo l’antisemita e il “fascista” di ogni tempo e che spiega, tra l’altro, la radicalità e l’unicità della Shoah.
Com’è ormai consapevolezza diffusa, una Giornata della Memoria aveva, doveva avere, la funzione primaria di far riflettere la collettività nazionale dei diversi paesi su quelle che erano state anche le proprie responsabilità, traendone il massimo di coscienza storico politica per il presente e per il futuro.
La memoria non poteva che rimandare continuamente al “sapere” e alla storia ricostruita sempre meglio
e sempre più in profondità. Anche perché soltanto una storia così intesa avrebbe permesso di riconoscere le responsabilità
Quelle aspettative nei confronti del Giorno della Memoria sono andate, nel tempo, e forse non poteva essere altrimenti, largamente disattese se non francamente deluse. Molti, ebrei e non ebrei, non possono che prendere atto delle derive di una memoria così spesso istituzionalizzata, banalizzata, ritualizzata, rappresentata e celebrata nella pura ripetizione. Dove persino la ricorrente e giusta osservazione che la memoria non possa essere coltivata soltanto un giorno all’anno ma debba esserlo sempre, tutti i giorni dell’anno, è diventata una banale ovvietà, di quelle che rinviano soltanto la risposta che si deve dare a un problema senza averne compreso il significato reale.
Cosa può il Giorno della Memoria di fronte alla crisi del nostro tempo, non solo economico-sociale ma anche etico-politica e dei valori , che non solo conferma la ripetibilità del male – e sia pure non esattamente quel male, per intensità e radicalità, oltreché intenzionalità totale nell’annientamento di un popolo – ma persino una ripetizione puntuale di quel male, o almeno dei suoi presupposti fondamentali, e dunque l’antisemitismo, e il negazionismo, e le mille altre cose orribili che puntualmente rialzano oggi la testa, e con tanto maggior vigore nella società della “comunicazione globale”?
Eppure la “memoria”, anche quella più ufficiale, mantiene il suo carattere di assoluta necessità, perché nella sua realtà storica ma anche nella sua proiezione verso il presente e verso il futuro, è cosa che oltrepassa ogni possibile strategia esistenziale e anche politica... "